La bufera giudiziaria Mafia Capitale che ha coinvolto alcune cooperative mette in luce i problemi strutturali della cooperazione rubricabili sotto due grandi capitoli: la debolezza della politica e l’opacità della sussidiarietà. Sul primo fronte, valgono le parole del presidente di Coop Italia, Marco Pedroni, al Congresso nazionale della Lega delle Cooperative: «nessuna giustificazione può avere l’ignoranza» e la cooperazione che deve fare di più «per arrivare anche prima dei magistrati». La politica della trasparenza è figlia dei principi sui quali si regge la cooperazione: la mutualità e l’associazionismo solidale. Sul secondo fronte, la questione si fa più seria perché la crescita della cooperazione è avvenuta in concomitanza con la politica della sussidiarietà, entrata a far parte della Costituzione con il Titolo V. Delineando il programma futuro al Congresso della Lega, Mauro Lusetti ha messo tra i settori in espansione «la sussidiarietà rispetto a uno Stato non più in grado di mantenere l’universalità dei servizi». La cooperazione a sfondo sociale vive di finanziamento pubblico, è in crescita e si è dimostrata permeabile all’ infiltrazione mafiosa e alla corruzione.
L’intreccio tra lecito e illecito sta insieme a quello tra disagio e profitto. È qui che “arrivare prima dei magistrati” fa la differenza: il che significa verificare la “sincerità” delle cooperative, vigilare sulle gare di appalto, monitorare le spese a partire dalla verifica delle condizioni di vita di coloro che dovrebbero beneficiare dei servizi. La prova dell’efficienza va cercata laddove sta il bisogno, nell’oggetto finale del servizio. Qui sta il test di coerenza con i principi della cooperazione; qui va cercata la prova della distanza tra servizio offerto e criteri ispi- ratori. Il degrado è allora un segno di subalternità a metodi di gestione che configurano illeciti e comportamenti contrari ai principi della cooperazione. Quali sono questi principi?
Non è esercizio ozioso andare alle origini di questo movimento europeo, al 1795, quando in Hull, contea inglese dello Yorkshire, la gente del villaggio fondò una società cooperativa per acquistare pane a prezzi non proibitivi liberando i consumatori dalle “pratiche fraudolente di produttori e distributori di farina”. L’esperimento ebbe tanto successo che i proprietari di mulini si rivolsero al giudice della contea per far chiudere la cooperativa. Il giudice si schierò con la cooperazione che si era dimostrata capace di generare armonia sociale. Con lo statuto dei “prodi pionieri” di Rochdale del 1844, un altro fattore emerse: la struttura decisionale democratica fondata sulla partecipazione non delegata e la conta di voti uguali con regola di maggioranza. L’Alleanza cooperativa inter- nazionale ha confermato nel 1966 questi principi con altri tre: il controllo democratico, l’interesse limitato sul capitale, il ristorno. Questi sono ancora oggi i valori cardine della cooperazione, statuiti nella legge quadro del 2003.
Si tende ad associare l’ideologia cooperativa con quella socialista, eppure la sua origine è liberale. Furono i riformatori liberali ottocenteschi a comprenderne l’importanza nella ricerca di soluzioni alternative al socialismo statalista e al capitalismo individualista. La cooperazione non è nata come ripudio del regime di mercato né della proprietà privata. Ha accettato i principi liberali della divisione del lavoro e della libera iniziativa e ha coniugato i concetti di solidarietà, democraticità e mutualismo solidaristico con i più classici fini commerciali. Per questo è stata considerata come un’alternativa al sistema capitalistico. Il mutualismo cooperativo fu una risorsa etica importante, che aiutò la democratizzazione della società favorendo la pratica dell’aiuto volontario. Nelle società gerarchiche il mutualismo è stato un’arma di difesa di chi non aveva nulla. Ha giocato un ruolo cruciale nelle economie europee dei due dopoguerra del XX secolo e ha ispirato i nostri costituenti che nell’Art. 45 vollero «riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata». Respingendo la logica della carità, la cooperazione si è proposta come partnership: associazione volontaria di persone che mettono in comune le loro capacità per un fine utile agli associati. La con-divisione della responsabilità ha voluto significare una concezione del lavoro produttivo come opera, non come merce; un pratica di mutua-dipendenza tra lavoratori invece che una condizione di asimmetrica dipendenza di proletari da un capo. J. S. Mill era convinto che la cooperazione potesse realizzare «le migliori aspirazioni dello spirito democratico».
È lecito chiedersi se abbia senso andare ai valori di un secolo e mezzo fa. Se si tiene conto delle vicende romane, la domanda non è retorica. Ma che i principi cooperativi siano antichi non vuol dire che siano desueti. È possibile che nella cooperazione di oggi i valori che l’hanno distinta all’origine si siano offuscati. Ma se i cooperatori continuano a organizzarsi secondo i criteri tradizionali non si capisce perché si debba pensare che siano valori anacronistici. Sono semmai non sufficientemente attrezzati a resistere alle nuove sfide del capitalismo finanziario e a una pratica della sussidiarietà che deve, questa sì, essere ripensata. Del resto, a quali altri principi la cooperazione può affidarsi se non a quelli che la qualificano da quando è nata, la democraticità e il perseguimento di uno scopo mutualistico?