Ma un vero viaggio in Italia, nelle periferie delle grandi città e nella sterminata provincia che è in realtà la spina dorsale della nazione, racconta un Paese molto diverso. È un’Italia che non si arrende alla crisi: non l’ha ancora superata, ma con la crisi tenta di convivere. Un Paese che ha compreso che il taglio è il moltiplicatore della depressione: con i tagli si ha l’illusione di mettere in sicurezza il bilancio della famiglia, dell’azienda, dello Stato; ma a forza di tagliare si è compressa la massa di denaro che circola, si sono ridotti non solo le spese improduttive o superflue ma anche i consumi e gli investimenti, pubblici e privati. Non a caso in questo Natale l’Italia ha ripreso timidamente a spendere. La speranza è che ora riprenda anche a investire. Nel futuro, e su se stessa.
Gli indicatori internazionali sono contraddittori. Da una parte, i segnali positivi: il prezzo del petrolio in netto calo; il costo del denaro ancora basso; l’economia Usa in ripresa a ritmi asiatici. Dall’altra parte, è evidente che qualsiasi politica messa in campo dal governo italiano è poca cosa rispetto alla vera partita, che si gioca in Europa; dove la Germania esercita un’egemonia gretta, chiusa, egoista, del tutto priva di slancio e di lungimiranza. Fino a quando l’Europa non cambierà politica, dal monetarismo (in piena deflazione!) al modello espansivo adottato con successo dagli Stati Uniti, sarà difficile che la spinta a uscire dalla crisi venga dal quadro macroeconomico. È dentro noi stessi che vanno cercate la forza morale, la fantasia, la creatività necessarie.
L’Italia di fine 2014 può documentare molte storie di aziende e di persone che hanno saputo resistere e rinascere, tenere duro e rinnovarsi. Quel che manca è un quadro d’insieme, che avvicini le eccellenze all’umore medio della società, che contamini i tanti esempi di successo con i troppi fallimenti; e il più grave è quello rappresentato dai giovani che si sono rassegnati a perdere la partita prima ancora di giocarla. L’Italia deve cambiare la propria visione di se stessa, l’idea del proprio ruolo. Il mondo globale, che noi pensiamo come una sciagura, è in realtà una chance. Certo, oggi il lavoro viene esportato là dove costa meno ed è meno appesantito dal fisco e dalla burocrazia, o viene importato e affidato a immigrati più disposti di noi a sacrificarsi. Ma domani il grande fascino dei nostri prodotti e l’immensa capacità attrattiva del nostro Paese può capovolgere le prospettive, se ci attrezziamo a rispondere con il nostro lavoro alla grande domanda di Italia che c’è nel mondo.
Non si tratta di essere stucchevolmente ottimisti, ma fiduciosi. L’ottimismo è un sentimento: si spera che alla fine tutto si aggiusti. La fiducia si basa su dati di fatto. E girando l’Italia si trovano molti dati di fatto che possono renderci fiduciosi per il 2015, e a maggior ragione per il futuro; a patto di saper guardare lontano. Non sto dicendo che finirà per forza bene: il declino — che per noi non è cominciato nel 2008, ma oltre vent’anni fa — potrebbe continuare; e il rischio Disneyland, il pericolo di diventare il fondale dei selfie di turisti frettolosi, esiste. Sto dicendo che l’avvenire dipende soprattutto da noi, da quello che sapremo fare. E, come italiani, possiamo fare ancora moltissime cose.
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