Se la caduta di un albero nella foresta aveva necessità di una ripresa televisiva per essere reale, così un femminicidio ha bisogno di un contorno social per fare (ancora) notizia? I like all’annuncio del delitto da parte dell’ennesimo ex marito incapace di rassegnarsi sono altrettante e ulteriori coltellate o soltanto quel nulla in più che però rende il tutto nuovamente scabroso e inaccettabile?
L’assassino, Cosimo Pagnani, anni 32, della provincia di Salerno, non risponde né a queste né ad altre domande. Arrestato, tace. Ferito, non a morte. Da se stesso, in tutti i possibili sensi. La sua è una storia che si ripete, con un’appendice neppure troppo sorprendente. Gli elementi di realtà sono scarni e consueti: un uomo e una donna si incontrano, si amano e si sposano, hanno una figlia, la passione finisce, a uno dei due quel che resta non basta, si separano, lui non lo accetta (accade anche il contrario, ma le Medea sono una contro dieci), quando lei trova un altro il risentimento esplode, dalle recriminazioni si passa alle minacce, dalle urla ai colpi di qualche arma. A rendere particolare la vicenda è il suo svolgersi, parallelamente, nel mondo di Facebook: è lì che tutto si deposita, lascia tracce, monta. Lì adesso inquirenti e media ricostruiscono personalità dell’omicida, escalation della battaglia tra lui e l’ex moglie, modalità del delitto. E rinvengono, a margine, utili a futura memoria, tracce di diffusa imbecillità.
Per spiegare chi sia quest’uomo vengono messi in fila i suoi selfie. Appare in tenuta da caccia e in costume tirolese, ma non è chiaro in quale delle due immagini volesse realizzare una parodia. Lo pervade quella disperazione che abbassa la soglia del pudore, spingendolo a mostrarsi fiero di un nuovo piercing, sullo sfondo delle piastrelle da doccia, testimone un bagnoschiuma, o in tenuta da superatleta, senza il fisico corrispondente, nel tinello. Esibisce ingenuamente le proprie passioni: il fucile appoggiato a un sasso, il paesello visto dalla collina, il furgone con cui lavora.
Con personaggi così in America ci fanno sit com di successo. Ma Cosimo Pagnani ha perduto ironia e amabilità perché ha perduto un ingrediente indispensabile: la famiglia. Ha sostituito i sentimenti ordinari con dosi straordinarie di affetto (per la figlia) e di rancore (per l’ex moglie). È sempre dai suoi post su Facebook che emergono la devozione per la bambina, “principessa”, e l’odio per la donna, che gliel’ha “rubata”. Per comunicare tra di loro i due non usano né telefono né av- vocati, come avviene in questi casi, ai diversi livelli di ostilità. Di nuovo, tutto avviene su Facebook che si trasforma nel loro teatro. Gli amici comuni sono gli spettatori, hanno accesso ai loro dialoghi, li commentano, applaudono chi l’uno chi l’altro. È lei a dettare tempi e modalità di questa recita e rifiutare ogni altra forma di contatto. C’è chi ammira la sua risolutezza, chi solidarizza con l’amarezza di lui, che si sente defraudato ma ritrova la forza di sperare e giura che tornerà “felice da morire”. Non è questo il messaggio più sinistro, il peggio deve arrivare. Se lui fosse rimasto in Germania dove ha trovato lavoro, se i loro scambi fossero rimasti su Internet non sarebbe successo nulla di irreparabile. Con tutta la sociologia demonizzante la Rete può rendere ridicoli e volgari, ma non uccide. Per quello occorre ancora la vecchia, mai obsoleta, realtà. La rappresentazione però esige un finale nello stesso teatro in cui si è svolta e quindi Cosimo Pagnani, sanguinante, manda dal cellulare un ultimo post annunciando il delitto con un estremo insulto alla vittima. Per come tutto è accaduto è una chiusa che gli sembra, e quasi è, necessaria.
Dopodiché parte la reazione del pubblico, per lo più positiva. Il profilo viene rimosso quando ci si accorge che i like sono oltre 300. Qualcuno pensa che siano giudizi inavvertiti, ma un altro frequentatore della rete controlla: solo 32 sono precedenti alla notizia dell’omicidio, gli altri 265 vengono apposti quando la fine è nota. Parlare per questo di social murder sarebbe una sciocchezza: Facebook è uno strumento come lo è un coltello, utilizzabile da un raffinato chef o da un matto. La caratteristica del giudizio emesso in Rete è l’assenza di mediazione, una specie di intercettazione senza filtro, nemmeno della voce al telefono, peggio: del pensiero nella testa.
Schiacciare like è un gesto da scimmia in laboratorio, si reagisce con un istinto primitivo e, quindi, più bestiale che umano. La cosa veramente esecrabile è che dopo, con tutto il tempo per riflettere e agire di conseguenza, decine di siti abbiano pubblicato il post dell’assassino così com’era, insulto postumo incluso. E giudizi morali a seguire
Pubblicato il 2 Dicembre 2014