Forse è un falso allarme. Ma le ultime settimane, coronate da un forte quanto inatteso assenteismo elettorale, hanno rimesso in discussione l’ambizioso disegno di disintermediare il rapporto fra politica di vertice e singoli cittadini attraverso la delegittimazione delle varie sedi intermedie di confronto e di mediazione. C’erano, ci sono state, tutte le condizioni per l’affermarsi di tale disegno: l’indicazione di un indiscutibile primato della politica; una forte leadership verticistica; una sua crescente empatia consensuale; una conseguente chiara volontà di rivolgersi direttamente ai cittadini; una notevole disponibilità di strumenti di convincimento collettivo (dalle conferenze stampa alle slides e ai tweet). Naturale quindi la tentazione di fare a meno di quelle tante sedi di confronto che hanno nei decenni appesantito ed invecchiato i processi decisionali e il rapporto fra politica e collettività. Ed è naturale l’orientamento a rottamare la concertazione; a mettere in discussione la capillarità degli apparati di partito; a disconoscere il valore oggettivo delle lotte e delle strutture sindacali; a guardare con sospetto le intenzioni delle rappresentanze imprenditoriali; a rendere secondario il mondo dell’associazionismo e del terzo settore. In altre parole, la volontà politica sembra voler fare a meno della rappresentanza e degli enti intermedi; e non solo nella dialettica socioeconomica, ma anche nell’articolazione dei poteri territoriali si sono combinate varie opzioni forti: la delegittimazione e anche la soppressione di Province, Camere di commercio, Prefetture. I n sintesi, fra il potere politico e i singoli soggetti sociali (cittadini e Comuni) sembra che si voglia creare uno spazio vuoto, liberato dalle strutture e dalle istituzioni intermedie. Certo, queste non erano (e non sono) in ottima salute, segnate da varie debolezze interne e da una bassa reputazione pubblica; ma la volontà di disintermediazione non ha adeguatamente riflettuto su tre aspetti delicati: anzitutto non ha tenuto conto del fatto che il consenso empatico di vertice spesso evapora come gli eventi piccoli e grandi che l’hanno supportato; in secondo luogo ha pensato che bastasse, per ottenere l’obiettivo, solo la facile rottamazione dell’esistente; ed infine non ha avvertito che il consenso si conquista con la quotidiana fatica di capire individui e problemi. Per capire cosa succede in fabbrica occorre qualche intelligente delegato di reparto; per guidare o fronteggiare uno sciopero o un’occupazione servono capi sindacali competenti e coraggiosi; per capire le preoccupazioni dei piccoli imprenditori occorre la disponibilità quotidiana dei quadri associativi; per capire cosa succede nel dissesto idrogeologico servono ricerche e tecnici a livello provinciale e camerale; per capire cosa bolle nell’orientamento politico delle masse occorrono quelli che una volta si chiamavano «uomini di collegio» capaci di spendersi sul territorio; per «annusare» le variazioni antropologiche delle diverse aree del Paese è essenziale il ruolo quotidiano delle migliaia di operatori del mondo del volontariato e del terzo settore. Nessuno esclude la congenita debolezza di tutte queste figure, ma senza di esse non c’è possibilità di raccordo e di dialettica fra politica e società. Per cui la tentazione della disintermediazione, pur comprensibile di fronte all’eccesso di concertazione giustamente criticato, resta nuda di fronte alla complessità sociale, a qualche ruvido sciopero aziendale, a qualche mobilitazione di massa, a qualche crisi di elettorato regionale. Questo vuol dire che la disintermediazione è un’illusione? Forse no, ma se si pone attenzione ai recenti campanelli d’allarme sarebbe bene che tutti i soggetti in causa (governativi e di rappresentanza, centrali e intermedi) si impegnino a ripensare a fondo le loro specifiche strategie e le loro dinamiche di confronto.