Il 2013 è stato un anno pesante, come scrive il Rapporto Eures sul femminicidio in Italia: 179 le donne uccise, il 70% in famiglia e il 92,4% per mano di un uomo. Una su sei uccisa dopo la decisione di lasciare il proprio partner. Una su dieci era una collega o una dipendente del suo assassino. Nella metà dei casi sono morte di botte, o strangolate. Maltrattate dal proprio uomo, che spesso avevano denunciato.
Da leggere insieme a questi, i dati della ricerca “Rosa Shocking – Violenza, stereotipi e altre questioni del genere”, presentato alla Camera e realizzato da WeWorld Intervita per ipsos. Per un italiano su tre la violenza domestica sulle donne è un fatto privato, che si risolve in famiglia. Per uno su cinque è accettabile denigrare una donna con uno sfottò a sfondo sessuale. Uno su 10 pensa che se le donne non indossassero abiti provocanti non subirebbero violenza. Uno su 4 è convinto che se una donna resta con il marito che la picchia, diventa lei stessa colpevole.
La violenza contro le donne non è un’emergenza, è prima di tutto un fenomeno che affonda le sue radici nella cultura diffusa e nelle disparità di potere tra uomini e donne. Affrontarla significa mettere in discussione stereotipi e luoghi comuni e promuovere una relazione diversa tra i generi, un modo diverso di concepire i rapporti tra uomini e donne, nella vita pubblica e in quella privata.
La ratifica della Convenzione di Istanbul è stato uno dei primi atti del Parlamento in questa legislatura, a cui è seguita l’approvazione della legge cosiddetta sul femminicidio.
Con la Convenzione di Istanbul, per la prima volta, la violenza sulle donne viene definita come una violazione dei diritti umani fondamentali, si indica la strategia per la prevenzione, l’accoglienza delle donne, la punizione del colpevole. Si fissa l’obiettivo di costruire una rete territoriale attraverso il coinvolgimento di tanti soggetti e la valorizzazione delle politiche migliori.
Ora dobbiamo lavorare con forza per dare attuazione a questi impegni e per monitorare costantemente i problemi aperti e i risultati raggiunti.
Senza questo sforzo politico e culturale la battaglia contro la violenza sulle donne rientrerebbe nei ranghi della categoria dell’emergenza e “dell’ordine pubblico” dalla quale faticosamente si sta tentando di uscire in questi anni grazie al lavoro e all’impegno di tante donne e di alcuni uomini. Se la violenza non è riconducibile semplicemente a devianza o patologia individuale, per contrastarla efficacemente dobbiamo rafforzare quei servizi (ci sono, anche se ancora troppo pochi) che sono anche un po’ dei laboratori sociali, perché provano ad immaginare relazioni diverse ed un modo nuovo di stare insieme per uomini e donne. Bisogna insegnare il valore positivo delle differenze ai bambini e alle bambine, formare insegnanti ed operatori, lavorare affinché anche i media si pongano il tema di una comunicazione rispettosa della dignità delle donne. Le leggi sono necessarie ma non bastano. Bisogna cambiare le teste, educare ai sentimenti. Lavorare dentro e fuori le istituzioni per promuovere una nuova cultura fondata sul rispetto, sulla libertà e sull’autonomia femminile, perché nell’affermazione della libertà e dell’autonomia femminile si aprono spazi di libertà per tutti.
Farlo ora, farlo insieme.