Agli inizi di settembre l’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha diffuso il consueto rapporto annuale sui sistemi educativi (Education at a Glance, 2014). In modo altrettanto consueto in Italia le indicazioni contenute nel rapporto sono state immediatamente piegate per sostenere questa o quella linea di politica scolastica rilevante soprattutto da un punto di vista interno. Così ha avuto immediate ripercussioni nel dibattito in corso sulla scuola (anche per la concomitanza con la presentazione da parte del Governo del piano per la Buona Scuola) il richiamo alla modestia degli investimenti pubblici o all’ampiezza di fenomeni negativi, come quello della dispersione. Eppure, ci sarebbe da stupirsi solo dello stupore di chi, vivendo in Italia, e magari avendo incarichi di responsabilità nel sistema educativo, ha avuto bisogno che certi fenomeni comparissero nel rapporto dell’Ocse per prenderne atto. È per lo meno paradossale che dei limiti della spesa per l’istruzione o dell’incapacità del sistema educativo di far fronte alle esigenze di larghi strati della popolazione (specialmente nella fascia dell’adolescenza) si sia consapevoli a Parigi, dove il rapporto è stato elaborato, ma non a Roma, da cui pure provengono i dati che sono stati presi in considerazione. Ci sono almeno due spiegazioni per la stranezza rilevata. La prima, e per molti versi più evidente, è che il nostro sistema educativo continua a essere privo della capacità di riflettere sul proprio funzionamento. In altre parole, non c’è alla base del sistema educativo un’organizzazione conoscitiva, capace di sostenere l’elaborazione di politiche e l’assunzione di decisioni che non siano piattamente ripetitive del senso comune. L’altra, più insidiosa, è che la modestia delle proposte e la sconnessione che caratterizza gli interventi sul sistema educativo siano una conseguenza della mancanza di modelli interpretativi dai quali possa derivare la definizione di percorsi validi per il medio e il lungo periodo. Si continua quindi a battibeccare su interventi a carattere contingente e si propongono soluzioni che al massimo servono da tampone, ma non si ha idea di quale profilo culturale si vorrebbe promuovere per la popolazione italiana nei prossimi decenni. Al massimo si ripropongono come verità indubitabili slogan che possono soddisfare i servizi di propaganda delle multinazionali, ma che corrispondono a scelte che non resistono oltre il tempo necessario a svolgere la loro funzione di promozione consumista. Quella che si è venuta a depositare sul sistema educativo è una cortina ideologica, nella quale le suggestioni nuoviste fanno da traino a interessi di breve momento, in particolari quelli espressi dalle imprese, pronte ad accreditarsi come istituzioni che possono trasferire ai ragazzi la cultura della quale sono portatrici. Che poi si tratti di una cultura destinata a essere superata prima che i giovani che hanno concluso il loro percorso scolastico possano sperare di ottenere un contratto di lavoro sembra non interessare nessuno. La ripresa degli argomenti che trovano spazio nei rapporto dell’Ocse è un segno d’inconsapevolezza circa gli intenti perseguiti da tale Organizzazione. Vale la pena di ricordare che l’Ocse persegue soprattutto finalità di sviluppo economico, secondo la logica, esplicitamente dichiarata, della globalizzazione. È del tutto improbabile, quindi, ricavare dai rapporti dell’Ocse gli elementi necessari a comporre un quadro di lungo periodo. Così si spiega l’esasperazione di modelli culturali vuoti, che enfatizzano il possesso di capacità alle quali non corrisponde una cultura. Ciò malgrado gli stessi dati forniti da studi promossi dall’Ocse (come quelli relativi alla perdita di competenze alfabetiche nella popolazione adulta) segnalino che a modelli culturali vuoti si associano fenomeni regressivi che non possono non preoccupare. Se si compiono scelte funzionali alla rilevazione contingente di ciò che è necessario allo sviluppo, è dubbio che i risultati dell’attività educativa permangano quando si saranno manifestate altre esigenze. È quanto si sta verificando con la capacità di comprensione dei testi scritti: se l’educazione promuove prioritariamente il soddisfacimento di esigenze immateriali (per esempio, leggere testi narrativi o poetici), il repertorio di capacità simboliche acquisito sarà abbastanza stabile, ma se l’intento dell’istruzione è utilitario la capacità incomincia a disperdersi quando non sia più utilizzata. È quel che sta accadendo con la scrittura: è paradossale, ma si osserva sempre più di frequente la disassuefazione, già durante il percorso scolastico, nei confronti di una capacità di scrittura non mediata da strumentazioni che limitano l’autonomia individuale.