Scrivere o leggere di abusi non è un compito facile né un passatempo gradevole. Sia chi scrive che chi legge preferirebbe occuparsi d’altro: nei dieci minuti di tempo che la lettura di questo articolo occupa si potrebbero fare molte altre cose più piacevoli, è sicuro, anche riposare e non fare nulla. Ma il silenzio produce effetti persino più “sgradevoli” del fastidio di occuparsi ancora, di nuovo e in una ricorrenza, per giunta, di violenza sulle donne. Il silenzio uccide quanto un coltello o una pistola. È più nocivo del fastidio di parlare.
Comincia così, più o meno con queste parole, l’ultimo libro della scrittrice e giornalista messicana Lydia Cacho: una bellissima donna di 50 anni, bella della forza che sprigiona, molte volte minacciata di morte, almeno due volte scampata ad attentati, rapita e sequestrata per aver raccontato e scritto con ostinazione per decenni di come le donne e i bambini, nel suo paese, siano vittime di abusi sessuali, violenza di ogni tipo, umiliazioni segregazioni torture infine morte, la morte spesso un sollievo. Con la complicità delle istituzioni politiche ed economiche, perché i “potenti” sono coinvolti nei traffici di prostituzione e pedofilia, nel silenzio delle tv e dei giornali che a quei potenti appartengono. Qualche settimana fa Lydia Cacho è stata in Italia, abbiamo parlato a lungo di che cosa si possa fare di davvero utile, ciascuno con le sue modeste forze, per fare in modo che le donne non abbiano paura. Qualcosa di utile oltre alla parola, alla scrittura. Perché i centri antiviolenza sono fondamentali, certo, ma moltissime donne non ne conoscono neppure l’esistenza. Dentro certe povertà Internet — l’informazione in rete — non arriva. Denunciare è sempre possibile, è vero, ma spesso inutile. Hai paura che dopo la denuncia sia anche peggio, spesso lo è. Le leggi servono ma non bastano. Gli uomini picchiano e uccidono le donne perché non fanno quello che vogliono loro: perché li lasciano, perché non assecondano i loro desideri, perché si scambiano un messaggio con altri, perché escono di casa quando gli è stato detto di non farlo. Non è un raptus, non è mai un raptus. La follia non c’entra. È piuttosto una convinzione profonda, arcaica, un’idea primitiva del possesso della donna, della “tua” donna, che in una zona remota della coscienza dice che questo è lo stato di natura delle cose: sei mia e fai come dico io. Non esci, non mi lasci. Non puoi. Una convinzione arcaica che attraversa i generi: è degli uomini carnefici come, in moltissimi casi, delle donne vittime. Da qualche parte in fondo al corpo e all’anima anche le donne, tante di loro, pensano che tutto è inutile perché tanto le cose stanno così, nessuno potrà davvero aiutarle. Alle bambine da piccole si insegna, ad ogni latitudine del globo, che devono — dovranno, per piacere a qualcuno — essere non solo belle e brave ma discrete, miti, umili. Disporsi in modalità passiva, avere pazienza, assecondare i desideri per eventualmente far valere i propri. Fare come vogliono senza tuttavia dare nell’occhio, farlo di risacca. Nell’onda di ritorno. In casa, al lavoro, per strada. Non spaventare gli uomini ma sedurli. Anche l’esibizione dei troppi meriti è un demerito: loro amano le bionde ma sposano le brune. Se vuoi farti sposare sii metaforicamente bruna, dunque, cioè sobria, timida, silenziosa. Meglio fragile che forte. Meglio dipendente che indipendente. Meglio coperta che scoperta. Si diceva dunque, con Lydia, che quello che servirebbe davvero è una specie di rieducazione sentimentale. Una pedagogia rivoluzionaria fin dai primi mesi di vita, all’asilo poi a scuola ma prima ancora in famiglia: una nuova educazione che sia capace di modificare l’assegnazione arcaica dei ruoli nelle coscienze. Un compito ciclopico, ma da qualche parte bisogna pur cominciare. Perché le leggi non servono, se non cambiano le teste. Aiutano, ma non bastano. Abbiamo anche riso: quando gli uomini sparecchiano la tavola capita che lo scrivano su un blog: sono bravissimo, sono per la parità, sparecchio. Poi abbiamo aperto Google, abbiamo digitato “uccisa dal fidanzato motivo”, “uccisa dal marito motivo”. Ho davanti il foglio su cui abbiamo segnato i primi sette risultati su due milioni e ottocentomila. Daniela Puddu, 37 anni, Iglesias, buttata dalla finestra perché sentiva il suo ex su Facebook. Veronica Valenti, 30 anni, Catania, lo aveva lasciato e non voleva tornare con lui. Fabiana Luzzi, 16 anni, Corigliano, lui voleva fare l’amore lei no. Ofelia Bontaiu, 28, Gualdo Tadino, non voleva partire per Londra con lui. Tiziana Falbo, 37, strangolata, voleva interrompere la relazione. Assunta Sicignano, 43, Vigevano, non voleva tornare con lui. Sonia Trimboli, 42, Milano, non voleva più vederlo. Non facevano quel che volevano loro, insomma: se ne andavano, non tornavano, parlavano con altri. Sonia aveva denunciato alla polizia il suo convivente il 28 agosto. Lui l’ha uccisa a ottobre, strangolata con l’elastico che usavano per tenere uniti i letti. Un gesto simbolico, diciamo. Nel mondo, solo negli ultimi giorni. Reyaneh Jebbari è stata impiccata in Iran per aver accoltellato l’uomo che la violentava. Maria Josè Alvaredo, 19 anni, eletta Miss Honduras e in procinto di volare a Londra per Miss Mondo è stata uccisa con sua sorella Sofia dal fidanzato di lei: Plutarco. Motivo: Sofia aveva ballato con un altro alla festa, Maria Josè aveva visto. Non stavano composte: reagivano alla violenza, decidevano con chi ballare.
Nelle foto di Guia Besana, italiana che vive a Parigi, ci sono immagini magnifiche di donne “Under Pressure”, così si chiama il suo progetto. Rotte, come bambole, sotto la pressione di quello che ci si aspetta da loro. Sotto il peso del non corrispondere all’attesa altrui che diventa infine anche propria. “Bella, brava, fedele”, dice lo spot che Eva Riccobono ha appena girato per la Onlus “Fare x bene” sotto lo slogan: Educhiamo i giovani al vero amore. Il video illustra in modo provocatorio cosa serve per non essere picchiate, per non essere uccise: essere come vogliono che tu sia. Allora alla fine è questo il meccanismo da scardinare, così difficile da trovare, così in fondo nella mente e nell’anima di ciascuno. Non è vero, bambina, che devi essere come vogliono che tu sia. Non è vero, ragazzo, che puoi pretendere che le donne siano come tu le vuoi. Si può anche cominciare dall’estetica. È appena uscita una bambola normale, sul mercato dei giocattoli. Un’anti-Barbie. Non è una bambola “coi difetti”, come scrivono i giornali. L’idea di difetto suppone un’attesa di bellezza ideale. È normale, simile alle donne come sono davvero. Anche un giocattolo serve, in questa battaglia contro la paura di non essere “giuste”, di non somigliare a quello che dovresti essere. Per arrivare a dirsi, da grandi, che c’è un solo modo per cambiare un fidanzato violento: cambiare fidanzato. Anche una bambola, molte bambole servono ad accettarsi per come si è, imparare a non dipendere dall’approvazione dell’altro. Piacersi e dunque proteggersi. Solo dai bambini, diceva Lydia, si può davvero ripartire. Conservarli liberi, non guastarli, farli forti. Ad esserne capaci: fare della scuola il più bel centro antiviolenza del mondo.