Un fatto di cronaca? Il rischio è che rimanga tale, dopo le dovute manifestazioni di sdegno. Il rischio è che rimanga relegato alla voce “passato”. Il rischio è che non si vogliano riconoscere nel mondo le stesse radici, mai seccate, di odio, razzismo, fanatismo. I testimoni dell’Olocausto sono sempre meno, ma la memoria è un esercizio di costante attualità che va coltivato ogni giorno. Esattamente come i principi della democrazia, da non dare mai per scontati. Oggi, a scuola, si potrebbero chiudere i libri e aprire i giornali. Ne risulterebbe una bella lezione.
La nuova impresa è il furto dell’intera porta-inferriata di Dachau, col motto “AR-BEIT MACHT FREI” (il lavoro rende liberi), che là fu inaugurato e poi si diffuse alla maggioranza dei campi di concentramento e di sterminio nazisti. Sdegno suscitato dalla profanazione, esecrazione: ci mancherebbe altro.
Universali , sentiti? Chissà. Dopotutto, è passato tanto tempo, la specie dei testimoni superstiti è quasi estinta, anche sul sacro incombe una prescrizione. E se non altro la prescrizione inesorabile dell’abitudine: dopotutto, ancora, si tratta di una replica. L’insegna con la scritta “ARBEIT MACHT FREI” era già stata rubata ad Auschwitz e ritrovata poco dopo (bisogna scriverla maiuscola com’era, anche nelle citazioni, almeno per non perdere la B invertita dal prigioniero costretto a lavorarla). Una bravata di neonazisti inetti, e largamente svedesi, per giunta. (Rileggere Larsson, prego). Del resto, chi può dire chi stia dietro la provocazione di Dachau… Già. Si oscillerà, così, “responsabilmente”, fra la preoccupazione di eccedere nei toni indignati e quella di minimizzare. C’è qualcosa di meglio da dire e da fare? Forse. Intanto, si può aver voglia di imparare, o richiamare alla memoria, che cosa fu Dachau. È così facile oggi informarsi, e perfino fare un viaggio. Dachau non fu solo il prototipo, il lager- scuola del concentrazionismo e dello sterminio nazionalsocialista. Fu anche il luogo in cui gli alleati occidentali, gli americani soprattutto, videro coi propri occhi che cosa vi si fosse consumato, e lasciarono documenti impressionanti del loro sgomento.
Ma c’è un’altra sollecitazione che viene dall’impresa di Dachau, ed è legata alla stessa incertezza sulla sua matrice. Non che il neonazismo sia introvabile: non è mai stato così in salute, anche nel parlamento europeo. In salute rigogliosa è l’antisemitismo, modello fondatore e perpetuo in ogni tempo di crisi, e di razzismi, nazionalismi, cospirazionismi, separatismi e altre purezze. Se Auschwitz tiene il primato simbolico e materiale della Shoah, la storia di Dachau è segnata fin all’origine dalla persecuzione di dissidenti, “minorati”, e di omosessuali, zingari, migranti. A contrassegnare l’Europa della crisi non è tanto l’auge del neonazismo, quanto la sua coincidenza e combinazione con chiusure e regressioni che sembrano avere, o pretendono di avere, un segno altro e magari opposto. L’equivoco la fa da padrone. L’allarme motivato — e tardo, esitante — contro il fanatismo jihadista sta sull’orlo del confine, e spesso lo scavalca, dell’intolleranza per i musulmani. La solidarietà con la gente palestinese e l’opposizione alla politica del governo di Israele sconfina volentieri nei discorsi su “gli ebrei” e nella confusione fra governo e stato israeliano. L’esasperazione contro la confisca di libertà e ricchezza da parte di poteri sovranazionali e indifferenti, anzi insofferenti delle regole della democrazia, fomenta una paranoia collettiva che istupidisce e incattivisce.
Non è vero, ed è losco, che non ci sia più distinzione, bisogno di distinzione, fra sinistra e destra. È vero che il peggio della sinistra e della destra vanno sempre più nutrendosi e confondendosi nella frustrazione della crisi, nella paura della retrocessione e dell’invasione, nella convinzione che un burattinaio tiri i fili, e che tutto ciò che si vede sia la mascheratura di ciò che è.
Il po’ di buono che succede nell’Europa di oggi ha del paradosso. Nella Polonia che vuole riscattare l’antisemitismo proprio, non quello altrui, con il museo dedicato a Varsavia, prima che alla memoria della Shoah, alla lunga, preziosa vita ebraica polacca. Oppure nell’Ungheria del plebiscitato Orbán costretto a ordinare una clamorosa marcia indietro sulla tassazione dell’uso della rete dopo la mobilitazione delle strade.
Quanto al resto, desolazione. Il governo di sinistra francese ha sul collo il fiato del Fronte Popolare, e non trova una parola decente per dolersi dell’uccisione di un giovane botanico nella manifestazione contro una diga sciagurata. L’alleato italiano della signora Le Pen sale nei sondaggi al ritorno da una missione internazionalista nella Corea del Nord e nella Piazza Rossa di Mosca, con tanto di maglietta putinista. Una buona parte della “sinistra” europea trova nella fatica dell’Ucraina a fare i conti con il proprio passato una giustificazione alla simpatia, o almeno all’indulgenza, nei confronti di Putin. Il quale fa la sua lezione sull’arroganza planetaria degli americani chiamandoli, lui, “nuovi ricchi”. Del resto sono la stessa Lega e la stessa “sinistra radicale” che al tempo della Bosnia andavano a cercare a Belgrado la loro illuminazione. Dei pasticci a Cinque Stelle meglio tacere. Nemmeno l’avventura mostruosa dello “Stato Islamico” basta a fare un po’ di ordine in tante teste voltate.
Ciò avviene dentro una crisi mondiale acuta, si vieta l’ingresso all’ebola e si drizzano frontiere artificiali mentre qualche migliaio di volontari armati di barba parte dall’Europa alla volta della Siria, e qualche centinaio di migliaia di siriani spogliati di tutto arranca alla volta dell’Europa. Abbiamo 29 ministri della difesa e degli esteri, e nemmeno una politica estera e una difesa europea. Facciamo finta che siano ancora affari nazionali. Il ministro degli interni dispone del primo problema internazionale, i migranti. (Finito Mare Nostrum, aspettiamo che affoghino all’ingrosso, in una volta sola, almeno 350 altri fuggiaschi — al minuto lo fanno ogni giorno — per riparlarne). L’Europa soccombe sotto l’incapacità di occupare i quattro cantoni della crisi economica e sociale, delle migrazioni, della sfida jihadista e di Israele-Palestina. Qualcuno ha pensato che fosse il momento, l’altroieri notte, di provvedere, ed è andato a prendersi il cancello di Dachau, con la scritta: “ARBEIT MACHT FREI”.