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"Cronache emiliane d'epica geografia artistica", di Vasco Brondi – Pagina 99 16.10.14

Lungo lo stradone una fila di negozi con tutti i sacramenti moderni, e donne che vanno a far la spesa pedalando come se il tempo per loro non avesse peso. Una chiesetta in stile gotico d’epoca fascista, fioriture di antenne televisive sui tetti, e anche qui quel tono da vita nelle riserve. È un po’ come essere sotto il livello standard del progetto finanziario di vita universale Gianni Celati, Verso la foce

 Mi sono accorto all’improvviso di vivere in Emilia attraverso le cose che leggevo, le canzoni che ascoltavo, i film che guardavo. Sono cresciuto a Ferrara e sembrava normale tutta quella pianura attorno, il fiume enorme vicino alla città, l’accento, la simpatia, le lamentele, il dialetto, le strade strette, i campi arati, i cieli bianchi, i paesaggi geometrici, le bestemmie, le preghiere, il silenzio di mattina, di pomeriggio e di sera. Probabilmente da piccolo credevo che tutto il mondo fosse più o meno così. La mia cartina geografica dell’Emilia è stata disegnata dai libri, dai dischi e dai film che rendevano protagonisti quei posti che sembravano anonimi, sembravano luoghi in cui niente sarebbe potuto succedere.

Mi hanno fatto scoprire il posto in cui vivevo e da cui volevo ovviamente andarmene in fretta. Forse davvero non c’è niente di speciale, solo ottimi raccontatori che hanno reso epici dei posti minuscoli. Come quando ho sentito una canzone di Lucio Dalla che diceva Tra Ferrara e la luna e non ci potevo credere. Tutte queste opere sono state per me come un libretto d’istruzioni scritto in modo poetico. Piazza Verdi e la coda per la mensa dell’università di Bologna disegnata da Pazienza in Pentothal. Le mitiche avventure del Posto Ristoro, il bar vicino alla stazione di Correggio descritto da Tondelli in Altri libertini. Le case misere ma fiere abbandonate in mezzo alla campagna e fotografate da Ghirri. Il diario allegro e disperato del viaggio a piedi sull’argine del Po scritto da Celati. Una passeggiata sulle mura di Ferrara in un inverno del 1944 descritta da Bassani che potrebbe essere dell’inverno scorso o del prossimo inverno. Ferrara sempre identica in bianco e nero nel 1950 nel primo film di Antonioni e a colori nel 1995 nel suo ultimo film. Zavattini che torna da Roma per stare un mese nel suo paesino d’origine, Luzzara, pernottando in una casa del centro e nell’appartamento di sopra sentiva un bambino piangere e la madre che si svegliava e lo raggiungeva camminando sui talloni perché il pavimento era gelato.

Ho fatto viaggi di pochi chilometri nei posti meno turistici del mondo e mi sono sembrati bellissimi, cercando i luoghi che leggevo sui libri. Posti insignificanti diventavano leggendari. I Cccp che dicevano «Non a Berlino ma a Carpi» e io non capivo niente e con un mio amico abbiamo preso un paio di treni a sedici anni e siamo andati a Carpi a vedere cosa c’era se la consideravano addirittura meglio di Berlino. Abbiamo trovato una piazza enorme deserta, tantissima gente normalissima, nessuno vestito come noi ma ci è piaciuta comunque. Forse alla fine abbiamo capito che più o meno era come stare a Ferrara e allora ci è venuto il dubbio che intendessero che i nostri posti andavano benissimo e che anche lì i desideri si possono realizzare. Ho incontrato Massimo Zamboni dei Cccp qualche giorno fa per uno spettacolo che abbiamo fatto assieme. Dice che gli sembra incredibile la traccia che hanno lasciato i Cccp e quello che tutti si immaginano «quando noi – mi ha detto – stavamo in piedi per miracolo». E ho pensato che i miracoli sono importanti.

Una volta sono andato in macchina a Canolo, la frazione del comune di Correggio dove sorge in mezzo ai campi un piccolo cimitero quadrato, una specie di fortino, splendido. Ho parcheggiato lì davanti, c’ero solo io. Seguendo il portico a destra, in fondo in alto ho trovato la lapide di Pier Vittorio Tondelli con una foto che non avevo mai visto, sullo sfondo dietro di lui dei graffiti, non mi ricordo che espressione avesse, credo sorridesse perché mi aveva reso felice. Per qualche strano motivo mi si stringe ancora la gola quando ripenso a uno scritto di un amico di Tondelli andato a trovarlo in ospedale in uno degli ultimi giorni della sua vita. Tondelli sentendosi chiedere come stava rispondeva «infinitamente triste». E poi diceva di non avere lavorato abbastanza e che sarebbe passato alla storia come uno scrittore emiliano minore. Invece con i suoi libri mi ha cambiato la vita.

Sono stato a Gualtieri, il paesino dove ha vissuto e disegnato Ligabue, pioveva e nella piazza il museo che ospita i suoi quadri era chiuso per i danni causati dal terremoto, in piazza solo un signore anziano seduto con l’ombrello aperto su una panchina e due operai maghrebini che lavoravano in una casa che affaccia sull’argine e poi sempre affacciato sull’argine l’unico negozio aperto, un kebabbaro. Chi ci avrebbe mai pensato.

Anche quando il comune ha messo una targa sulla casa in cui è cresciuto Antonioni a Ferrara pioveva. La casa adesso è appena fuori dal centro, mentre prima, racconta Celati, in quel punto si era praticamente in mezzo a un bosco. Scrive Wim Wenders nel suo diario delle riprese di Al di là delle nuvole, l’ultimo film di Antonioni di cui Wenders era tecnicamente co-regista, che Ferrara era una delle pochissime parole che Antonioni riusciva ancora a dire non essendo più in grado di parlare a causa della malattia. Wenders vedendosi tagliare nel montaggio finale tutte le scene girate in città e chiedendo spiegazioni ad Antonioni questo gli rispondeva semplicemente Ferrara e indicava verso di sé, per dire che Ferrara era sua e poteva riprenderla solo lui. Antonioni che scriveva: «Il resto è nebbia. Ci sono abituato. A quella che circonda le nostre fantasticherie e a quella di Ferrara. Qui, d’inverno, quando scendeva mi piaceva camminare per le strade. Era il solo momento in cui potevo pensare d’essere altrove».

A Ferrara ancora adesso cammino nelle strade descritte da Bassani, passo davanti al vecchio carcere dove durante il fascismo era finito anche lui ma diceva che si era trovato molto bene, che in quegli anni in carcere c’era anche della gente bellissima.

Sono riuscito a incontrare Gianni Celati ma non gli ho detto che grazie al suo libro Verso la foce ho fatto uno dei viaggi più belli che mi sia capitato andando in bicicletta per cento chilometri dal centro di Ferrara fino a Goro, la foce del Po, procedendo sempre dritto, scendendo dall’argine solo per prendere qualcosa da bere in un bar. Vedere all’improvviso che comparivano in cielo i gabbiani. Trovare nel piccolo porto di Goro quello che credevo fosse un bar, perché c’erano davanti seduti una decina di anziani che parlavano e giocavano a carte, invece entrando nel chiosco mi sono accorto che dentro c’erano solo macchinette automatiche ma che era comunque un luogo di incontro.

Un giorno in una lunga deviazione nella strada che faccio spesso da Ferrara a Milano ho trovato la casa di Luigi Ghirri a Roncocesi, la casa in cui ha vissuto gli ultimi anni, quella fotografata da lui con la neve davanti e per terra la traccia di ruote. Anche quando ho cercato quella casa sembrava stesse per nevicare e non sono sicuro di averla trovata, si somigliavano tutte. Ripensavo a Ghirri che scrive che Zavattini scrive che la malinconia è originaria del Po, che altrove si tratta di imitazioni.