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"Europa dei meriti, non capro espiatorio", di Beppe Severgnini – Corriere della Sera 08.10.14

 
Potremmo chiamarla, o chiamarlo, «The Million Euro Baby», se il titolo non fosse così cinematografico. La Commissione europea ha calcolato che un terzo degli studenti Erasmus ha conosciuto il partner durante l’esperienza all’estero. «Stimiamo che da queste coppie, a partire dal 1987, sia nato un milione di bambini», ha dichiarato Androulla Vassiliou, commissaria uscente per l’Istruzione, la Cultura e la Gioventù.
Secondo voi, quanti leader politici hanno commentato la notizia con orgoglio? Quanti hanno capito che altri programmi Ue producono norme europee, mercati europei, prodotti europei; mentre il programma di scambi universitari Erasmus, da ventotto anni, produce europei. Un sostantivo, senza aggettivi. E costa lo 0,7% della politica agricola comune.
«The Million Euro Baby». Nessun governante, nei 28 Paesi, ha ricordato il traguardo, che io sappia. Tanti, invece, sono impegnati a scaricare sull’Unione responsabilità e colpe: anche responsabilità nazionali, anche colpe che i governi dovrebbero assumersi. La Conferenza di alto livello sul lavoro, in programma oggi a Milano, offrirà probabilmente ulteriori, malinconici esempi di questa tendenza.
L’Europa è diventata il capro espiatorio delle inadempienze nazionali. È facilissimo attaccarla: non può difendersi. Un club non può farci niente, se i soci vanno in giro a parlarne male. Ma i soci del club europeo non sono soltanto i governanti, di ogni nazionalità e credo politico. Siamo tutti noi e dovremmo essere meno cinici di chi ci guida.
Certo è facile, per Matteo Renzi, ripetere «Non sarà l’Europa a dirci quello che dobbiamo fare!». Certo è utile, per David Cameron, rispondere: «Tengo mille volte più alla Gran Bretagna che all’Europa». Certo è comodo, per Manuel Valls, dire: «La Germania deve cambiare tono!» invece di metter mano alla mastodontica spesa pubblica francese (56% del Pil). Ma tutti e tre, e altri, dovrebbero chiedersi: cosa faremmo, senza il fiato dell’Europa sul collo?
La risposta, per l’Italia, è facile: eviteremmo la fatica del cambiamento e torneremmo a spendere come cicale. Un ex-presidente del Consiglio, privatamente, giorni fa lo ha ammesso: «Senza lo scudo delle norme di bilancio Ue, chi governa l’Italia non potrebbe resistere alla pressioni di sindacati, industriali, amministrazioni locali, interessi vari». Senza i vincoli europei — ricordiamolo — il debito pubblico italiano è schizzato dal 50% del Pil nel 1974 al 122% del 1994. Ora siamo al 132%. Non è poco: la Francia è al 92% e la Germania al 78%. Ma almeno, grazie ai guardiani di Bruxelles, non ci siamo finanziariamente suicidati.
È irritante aver bisogno di guardiani? Ovvio. Si può evitare? Certo, basta mostrare di poterne fare a meno. Se facessimo le riforme che promettiamo — lavoro, giustizia, fisco, scuola — il cielo economico sopra l’Italia schiarirebbe all’improvviso. Non dimentichiamo che 600 miliardi del nostro debito pubblico sono in mano a fondi stranieri. Se decidessero che parliamo tanto e facciamo poco — se concludessero che di noi non ci si può fidare — sarebbero guai seri. Chiedete a Silvio Berlusconi: ne sa qualcosa, il 2011 non è così distante.
Il deficit al 3% non è un dogma, si può modificare. E, come ha ricordato Pier Carlo Padoan aprendo il convegno anglo-italiano di Pontignano (Siena), «alcuni Paesi europei pensano di aver fatto tutto e non è così». La possente ed egocentrica Germania, convitato di pietra d’ogni incontro europeo, potrebbe usare l’enorme surplus commerciale, creare domanda, liberalizzare il mercato interno dei servizi. Questo, tuttavia, non autorizza i politici europei, di ogni colore e latitudine, a parlare con sarcasmo e disprezzo dell’Unione Europea. È una questione di rispetto e di lungimiranza.
L’Europa dobbiamo farla migliore: non disfarla.