L’Italia ce la farà a partire dalle sue città: è lì che dovremmo guardare. Affermazione che può suonare strana per un Paese privo delle megalopoli indicate come i veri motori dello sviluppo nel XXI secolo. Invece rappresenta la traccia di lavoro che dobbiamo seguire. E che ciò sia possibile lo dimostra proprio l’esperienza di una metropoli come Istanbul, Capitale europea della Cultura nel 2010; un evento dal quale le nostre città possono imparare. Perché lì la candidatura è stata pensata e costruita non solo come momento di incontro tra religioni e culture – un ponte tra Europa e Asia che se fosse andato avanti forse ci avrebbe evitato molti degli attuali conflitti – quanto soprattutto come volano di modernizzazione nel rapporto tra cultura ed economia. La megalopoli Istanbul ha utilizzato l’evento per presentare al mondo e aprire alla contaminazione il proprio modello di sviluppo, ovvero svolgendo una funzione di motore dell’innovazione per il resto del Paese. Un modello di evento di cui tra l’altro l’Italia è stata protagonista visto che cinque anni fa la Triennale e i migliori gruppi del made in Italy parteciparono a una serie di eventi e scambi nella capitale turca che avevano al centro il tema dell’intreccio tra saperi e servizi metropolitani e modelli produttivi.
Certo in Italia la crescita urbana ha assunto il volto diverso del policentrismo delle “cento città”, una metropolizzazione del territorio a nuvola cresciuta lungo i grandi assi infrastrutturali e che ha assunto la forma di “città infinite”. Nel nostro Paese lo sviluppo è scaturito non dalla frattura tra città e contado quanto dalla profondità dei loro legami culturali ed economici. Vale sempre l’intuizione di Braudel sulla connessione tra città ricca e campagna florida, oggi sfidata dall’affermarsi di un capitalismo della conoscenza globale che pare fondarsi sulla supremazia di saperi e poteri metropolitani. È su questo impianto che si colloca la partita delle città candidate al titolo di Capitale europea della cultura 2019. È ormai da un quindicennio almeno che il titolo di città creativa o della cultura rappresenta un po’ la nuova frontiera delle politiche di sviluppo locale.
Finita la stagione della de-industrializzazione le policies urbane hanno cercato nella cultura la nuova frontiera della crescita, in grado di rendere le città magneti ancora attraenti per capitali, tecnologie e intelligenza. A volte riproponendo un modello centro-periferia rigido in cui la capacità attrattiva della città si giocava a discapito del territorio. Penso che, nel caso italiano, il tema vada impostato in modo diverso. Da noi la posta in gioco nel rapporto tra città e cultura riguarda la capacità delle città di essere porte sul mondo per le piattaforme territoriali in cui sono impiantate, centri produttori e diffusori di saperi e ricerca al servizio delle specializzazioni produttive e dello sviluppo culturale dei propri territori.
In questa evoluzione il ruolo di Capitale della Cultura esce dai circuiti localistici e va giocato su un raggio d’azione di aree vaste dove la cultura si contamina con l’economia e può diventare forza produttrice di valore per filiere produttive territorializzate che tendono sempre più ad allungarsi alla ricerca di servizi e saperi innovativi concentrati nelle aree urbane. Questo cambia anche il perimetro territoriale delle politiche sia culturali sia di attrazione turistica o di sviluppo sempre più tarate su una dimensione di città-regione.
Un ragionamento che pur nelle singole peculiarità può valere per tutte e sei le candidate: se Matera può giocarsi un ruolo baricentrico sull’asse Napoli-Bari, Lecce guarda alla piattaforma turistico-culturale salentina, Siena e Perugia possono essere nodi della macro-regione del l’Italia di Mezzo, Ravenna è un pezzo di una città-adriatica capitale diffusa del l’intrattenimento da Venezia alle Marche, mentre Cagliari è porta sulla frontiera mediterranea.
Essere Capitali della Cultura impone lo sviluppo di uno spazio di posizione e di rappresentazione delle città nuovo e più ampio fondato sulla costruzione di un nuovo patto tra città e contado, tra capitalismo delle reti e manifatturiero/agricolo, tra élite urbane e territoriali. Un nuovo spazio di posizione in cui i ceti riflessivi urbani siano capaci di elaborare contenuti culturali funzionali anche ai bisogni di innovazione delle economie territoriali. Le nostre città creative derivano, oltre che dalla profondità del l’accumulazione storica di saperi e arte, dal processo di terziarizzazione della manifattura o delle filiere agricole, dal legame tra patrimonio artistico diffuso nei territori e reti lunghe di connessione rispetto agli altri nodi urbani nel mondo. Giocare la partita di Capitale della Cultura significa scommettere sulla capacità di costruire una nuova organizzazione spaziale in cui le città medie svolgano il ruolo di città-regioni. Vuole dire la capacità da parte delle élite locali sia politiche sia economiche e culturali di produrre e interpretare una visione “alta” e soprattutto propria dell’economia della conoscenza che non sia la meccanica importazione di modelli culturali e di sviluppo costruiti su altre dimensioni e tradizioni. Significa sviluppare la capacità di incamminarsi lungo una “nostra” green economy fatta forse più di reti territoriali e culturali soft che di grandi investimenti nelle tecnologie energetiche; così come il ruolo di smart city vada interpretato come motore di smart land diffusa fatta di innovazione sociale, comunità e territori in grado di appropriarsi delle soluzioni tecnologiche partendo dai loro bisogni più che come esito di una digitalizzazione dall’alto.
Finita la stagione della de-industrializzazione le policies urbane hanno cercato nella cultura la nuova frontiera della crescita, in grado di rendere le città magneti ancora attraenti per capitali, tecnologie e intelligenza. A volte riproponendo un modello centro-periferia rigido in cui la capacità attrattiva della città si giocava a discapito del territorio. Penso che, nel caso italiano, il tema vada impostato in modo diverso. Da noi la posta in gioco nel rapporto tra città e cultura riguarda la capacità delle città di essere porte sul mondo per le piattaforme territoriali in cui sono impiantate, centri produttori e diffusori di saperi e ricerca al servizio delle specializzazioni produttive e dello sviluppo culturale dei propri territori.
In questa evoluzione il ruolo di Capitale della Cultura esce dai circuiti localistici e va giocato su un raggio d’azione di aree vaste dove la cultura si contamina con l’economia e può diventare forza produttrice di valore per filiere produttive territorializzate che tendono sempre più ad allungarsi alla ricerca di servizi e saperi innovativi concentrati nelle aree urbane. Questo cambia anche il perimetro territoriale delle politiche sia culturali sia di attrazione turistica o di sviluppo sempre più tarate su una dimensione di città-regione.
Un ragionamento che pur nelle singole peculiarità può valere per tutte e sei le candidate: se Matera può giocarsi un ruolo baricentrico sull’asse Napoli-Bari, Lecce guarda alla piattaforma turistico-culturale salentina, Siena e Perugia possono essere nodi della macro-regione del l’Italia di Mezzo, Ravenna è un pezzo di una città-adriatica capitale diffusa del l’intrattenimento da Venezia alle Marche, mentre Cagliari è porta sulla frontiera mediterranea.
Essere Capitali della Cultura impone lo sviluppo di uno spazio di posizione e di rappresentazione delle città nuovo e più ampio fondato sulla costruzione di un nuovo patto tra città e contado, tra capitalismo delle reti e manifatturiero/agricolo, tra élite urbane e territoriali. Un nuovo spazio di posizione in cui i ceti riflessivi urbani siano capaci di elaborare contenuti culturali funzionali anche ai bisogni di innovazione delle economie territoriali. Le nostre città creative derivano, oltre che dalla profondità del l’accumulazione storica di saperi e arte, dal processo di terziarizzazione della manifattura o delle filiere agricole, dal legame tra patrimonio artistico diffuso nei territori e reti lunghe di connessione rispetto agli altri nodi urbani nel mondo. Giocare la partita di Capitale della Cultura significa scommettere sulla capacità di costruire una nuova organizzazione spaziale in cui le città medie svolgano il ruolo di città-regioni. Vuole dire la capacità da parte delle élite locali sia politiche sia economiche e culturali di produrre e interpretare una visione “alta” e soprattutto propria dell’economia della conoscenza che non sia la meccanica importazione di modelli culturali e di sviluppo costruiti su altre dimensioni e tradizioni. Significa sviluppare la capacità di incamminarsi lungo una “nostra” green economy fatta forse più di reti territoriali e culturali soft che di grandi investimenti nelle tecnologie energetiche; così come il ruolo di smart city vada interpretato come motore di smart land diffusa fatta di innovazione sociale, comunità e territori in grado di appropriarsi delle soluzioni tecnologiche partendo dai loro bisogni più che come esito di una digitalizzazione dall’alto.