Quando dice che la tenuta della società è a rischio se non si mette subito mano a una manovra per la crescita, il ministro Pier Carlo Padoan sa di sfiorare la leva della estrema emergenza, sa di fare come chi avvicina la mano al bottone che scatena le sirene dell’allarme. Si tratta di una minaccia, non ancora di un fatto compiuto. Ma il senso di quelle parole è chiaro: o si comincia a risalire o si annega. Dietro le schermaglie europee sui parametri del debito e i tempi del rientro si affaccia un incubo sociale, il peggio è dietro l’angolo. Padoan è un economista collaudato nelle valutazioni macro e non proviene da una formazione strettamente keynesiana.
Ma sa che una crisi della coesione sociale è l’equivalente di un fallimento assoluto, per chi fa il suo mestiere. E per tutti noi con lui. L’equilibrio infatti è l’obiettivo degli economisti, i quali sanno pure che la crisi della «coesione» e cioè un collasso dei fattori che tengono in vita una società sono l’estremo male da cui ogni mossa di governo è tenuta a preservarci. La crisi del ‘29 insegna.
I requisiti della «tenuta» sociale sono parenti stretti di una gestione economica funzionante e sono fatti di occupazione, reddito, istruzione, sicurezza sociale, servizi sanitari efficienti e accessibili a tutti. La macroeconomia si è definita, in negativo, attraverso la catastrofica esperienza degli anni seguiti alla Grande Guerra. Allora, nel 1919, il promettente, prodigioso talento di Cambridge, che partecipava alle trattative di Versailles come delegato del Tesoro britannico, fu sconfitto e le clausole punitive nei confronti della Germania furono dure come le volevano soprattutto i primi ministri francese e britannico, Clemenceau e Lloyd George. Keynes abbandonò i lavori e scrisse di getto un’opera, Le conseguenze economiche della pace , che ebbe grande successo sul piano intellettuale, ma esiti politici purtroppo tardivi, solo trent’anni e molti milioni di morti dopo, con il Piano Marshall, che è stato il rovesciamento speculare della politica di Versailles, quella che aveva spinto la Germania nelle spire dell’inflazione e di Hitler.
Appresa la lezione — sostenere la crescita e la domanda, soprattutto nei paesi sconfitti —, l’economia europea e quella di tutto l’occidente attraversarono un luminoso periodo di stabilità, sviluppo industriale, aspettative crescenti, benessere e coesione sociale; un periodo definito di «compromesso socialdemocratico ». Un compromesso i cui contraenti erano le imprese, il capitale e «il mercato», da una parte, e il lavoro, i partiti, i sindacati dall’altra. Chi c’era ricorda anche violenti conflitti, ma il senso generale della storia era chiaro. In quei decenni benigni, ‘50, ‘60, ’70, i requisiti della «coesione sociale » hanno messo radici diventando come il teatro naturale non solo di una ragionevole equità, ma anche dell’affermazione dei diritti, delle diverse generazioni di diritti della persona, dei diritti di libertà attraverso lo Stato, vale a dire dei diritti garantiti da una prestazione pubblica. La società ne ha ricevuto benefici di sicurezza, crescita economica e civile attraverso molte contraddizioni, ma sempre confermando per l’essenziale uno scambio di comunicazioni tra l’individuo e la collettività.
Da almeno due decenni questo scambio presenta aspetti inquietanti. L’idea che «il diritto di avere diritti» si presenti come una linea semiretta, da qui verso l’infinito futuro, non è più moneta corrente. La qualità dei diritti non ha perso il suo fascino e nemmeno la sua attualità (dalla scuola alla casa, dalla sicurezza sul lavoro all’ambiente): quel che ha perso forza è la loro capacità di attuarsi in sintonia con la crescita economica, che si è fermata, mentre si sono allargate le distanze sociali e si sono allentate le prestazioni dello Stato che ne attenuavano la percezione. Aumenta la povertà e lo sguardo verso il futuro non offre più autostrade dei diritti, né prospettive migliori per i figli.
In Italia la presa d’atto del cambio di orizzonte è stata più lenta che altrove e il conto degli arretrati (che ha preso la forma di un terribile debito pubblico) si presenta più pesante. Le ragioni del ritardo sono oggetto del dibattito a destra e a sinistra. Il campanello delle politiche di Terza Via è suonato in Gran Bretagna e in Germania dalla fine degli anni Novanta ed ha tenuto il campo per quasi tutto il decennio successivo. Nella sua forma più esplicita, quella del New Labour, si è affermato anche grazie alla forza ideologica con cui Tony Blair ha voluto annunciare un cambiamento di orizzonte: meno protezioni pubbliche più responsabilità individuale, meno garanzie dall’assistenza sociale più spinte all’intraprendenza privata. Unica certezza l’assegno universale di disoccupazione, che da noi ancora non c’è. Ora il campanello suona anche qui, davanti alla minaccia di un declino che non è cominciato oggi, ma che produce scricchiolii ai quali può seguire il frastuono di un cedimento strutturale.
Da una parte la linea punitiva — fate i compiti — deve essere piegata, anche in questa Europa che non è reduce da una guerra, ma solo dalla crisi dell’euro e dell’Unione, ed è indispensabile far cambiare verso alla Merkel. In metafora: quello che non riuscì a Keynes nel 1919 contro Clemenceau- Lloyd George. Dall’altra il cambiamento di orizzonte deve essere reso esplicito se si vogliono attenuare i contraccolpi su una società, la nostra, alla quale le cattive notizie sono state, in un certo senso, taciute e messe in ombra da varie promesse. La tentazione dei politici è stata a lungo quella di rinviare il momento doloroso, con la conseguenza di renderlo ancora più difficile e di prolungare aspettative non più realistiche. È ormai chiaro che la combinazione virtuosa per l’Europa di crescita economica, crescita demografica e compromesso sociale redistributivo dei benefici, si è interrotta non solo a causa degli errori dell’Unione, ma anche perché ne sono venute meno le basi materiali e le condizioni internazionali. Ma evitare il disastro di una lacerazione sociale senza fine resta l’assoluta priorità, anche degli economisti.