Lo sguardo che ha un ragazzo quando esce fuori – vincitore – da un’equazione ha una tale pasta di sorpresa, stupore e pienezza che bisognerebbe mostrarlo a tutti, a più riprese durante tutta la vita. Val la pena ricordarsene in questi giorni in cui si ritorna tra i banchi, e della scuola prevale – dentro i ragazzi e dentro gli insegnanti – l’idea della spada di Damocle, di tanta fatica per nulla, di un luogo rimasto chiuso fuori dalla storia dove si fanno cose che non servono a niente e che non interessano a nessuno. Lo stesso vale per una versione di latino, una reazione chimica, un salto a muro in una partita di pallavolo. A dispetto dei discorsi sterili sulla presunta inutilità dello studio, delle retoriche stereotipate sulle lingue date per morte, lo si studi per cinque minuti, lo sguardo che viene negli occhi a un ragazzo o a una ragazza che risolve un problema. Ci si renderà conto che lì dentro c’è tutto: il trionfo dopo la paura del fallimento, il palesarsi del mondo per intuizione, il raggiungimento di un obiettivo, la percezione di essere cresciuti durante il tragitto. Lo si potrà confrontare con mille altri sguardi di gioie più effimere, ma quello sguardo non avrà paragoni. Si confronti lo sguardo da copiaincolla di un ragazzo che consegna una ricerca al professore, con quello di chi ha scollinato il limite di quel che non sapeva e porta un tema come una conquista, un quaderno come una bandiera conficcata sulla Luna. Perché contiene la fatica, che è uno dei legni che rendono più vivo il fuoco di un ragazzo. Se la scuola, i maestri, i genitori – noi – ci occupassimo di mettere quella legna, invece di cercare di evitare loro ogni fatica nella speranza di farci perdonare e amare un po’ di più dai nostri figli, avremmo fuochi più alti e meno braci su cui soffiare per paura di vedercele spegnere sotto gli occhi.
In questi giorni di inizio scuola in cui ci si chiede se ancora abbia un senso – in tempi di nuovi professionismi e dilagante disoccupazione – chiedere ai figli di stare decine di anni tra i banchi, è utile ragionare su quella luce che la fatica accende dentro una persona. Per farlo sono preziosi, ciascuno a suo modo, tre libri appena usciti: Elogio della fatica, di Matteo Rampin (Ponte alle Grazie), La fatica di crescere , di Marco Aime e Gustavo Pietropolli Charmet (Einaudi) e Le prime albe del mondo di Marco Albino Ferrari (Laterza). Quello di Rampin e quello di Ferrari sono due testi in cui i protagonisti sono persone che della fatica, e della sfida dunque, hanno fatto un mestiere: rispettivamente dieci campioni dello sport italiano (da Igor Cassina al rugbista Marco Bergamasco al judoka Pino Maddaloni) e dell’alpinismo (dai miti del passato come Renato Chabod e Giusto Gervasutti fino a Walter Bonatti e Reinold Messner). A che pro fare tanta fatica quando il premio è una medaglia di poca gloria che con l’età finirà in cantina o nella cesta dei giochi dei nipoti?
«Ecco a cosa servono gli allenamenti – dice il pugile Clemente Russo – a creare condizioni mentali che ti facciano sentire fiducioso in te stesso e nelle tua capacità». E dunque la fiducia in sé, la creazione salutare di un Vuoto (meccanica fondante del judo) in cui far convogliare la forza del mondo, percepirla in tutta la sua dirompenza per poi sapersene servire. È di questa fatica che la scuola e noi adulti in generale è importante che facciamo manutenzione: la fatica che produce vuoti da riempire, che spalanca la fame di altro mondo, di conoscenza.
Di quella fatica è importante che i ragazzi stessi sentano prima di tutto il piacere ( il piacere dopo la gara, dopo la fatica). Soprattutto alla fatica è connesso il superamento di un limite, il raggiungimento di un obiettivo ulteriore. È la fatica che fa pronunciare a Federica Pellegrini – cronaca di questi giorni – parole di fuoco contro il doping: la fatica della disciplina e del confronto con se stessi contro la scorciatoia di una medaglia al collo presa in pasticche. La sanno gli alpinisti raccontati da Marco Albino Ferrari, che si fanno largo in mezzo alle ostilità, sia esterne (il freddo, il vento) sia interne (scoraggiamento, solitudine) per conquistare cinque minuti di sconfinamento in cima a una montagna, e poi tornare giù. Ma quello sconfinamento è l’unica replica possibile, l’unico perché con cui ribattere a chi chiede conto di un’azione tanto inutile ( I conquistatori dell’inutile , ricorda Ferrari, è il titolo di un libro fondamentale per la letteratura d’alta quota), com’è quella di camminare per giorni da soli in condizioni impossibili. Rivendicare la via lunga e faticosa, sceglierla. Rivendicare, come resistenza, un tempo lungo contro il tempo breve, da cui il moltiplicarsi – con la conseguente e fatale deriva modaiola – di ogni estetica Slow, dal cibo, al running di massa alla meditazione.
In tempi di “industria della non fatica” (come la definisce il pugile Clemente Russo) val la pena riportare l’attenzione su quell’esigenza di spalancare vuoti, liberare spazio, far confluire mondo. È lì che va a inserirsi quel detonatore micidiale e impagabile che è la conoscenza, che rivoluziona – traumatizza, persino – quel che eravamo, per farci diventare quello che ancora non sappiamo. Attraverso un libro, un quadro, una relazione, un’equazione. Cosa c’è di più inutile – stando all’ideologia della non fatica – che il sapere? Eppure quali sono i mondi che di colpo spalanca? Ce lo ricorda il Giacomo Leopardi di Mario Martone in quel film struggente e potentissimo – tra poche settimane in sala – che è Il giovane favoloso. Cosa si può fare se non rifiutare la siepe, pretendere l’infinito che nasconde? L’alternativa è quella di un mondo in cui crescere diventa troppo faticoso perché si abbia voglia di farlo, o perché la società – attraverso il lavoro, tra gli altri – incoraggi a farlo. Lo ricordano Aime e Pietropolli Charmet, che riflettono sui riti di passaggio che sbiadiscono, in un momento storico come questo in cui diventare adulti è una faccenda da rimandare a data da definirsi. E non perché, come dice il Leopardi di ripreso da Martone, «non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita», ma se mai perché quel fanciullo l’hanno prima soffocato e poi messo sul divano tra i peluche a fare da guardie del corpo contro il mondo. Meglio, apparentemente, restare in una condizione conosciuta che sfidare un limite oltre il quale forse davvero non c’è niente. Perché nessuno si aspetta niente da te. Ecco, forse bisognerebbe rivalutare, insieme alla fatica, l’aspettativa, quel motore che non ha pari e con cui un maestro, un genitore incoraggia un bambino o un ragazzo ad andare verso di lui. O una società, appunto, a far crescere un adulto. Perché di quel gesto – aspettarsi qualcosa da loro – ci si assume la responsabilità, che è una fatica e una protezione insieme. Di tutto questo ricordiamoci in questi giorni che si ritorna tra i banchi di scuola e che il mondo si rimette in moto. E di quello sguardo che ha il bambino la prima volta che riesce a fare qualche passo senza appoggiarsi al divano o alle gambe della mamma. Chiunque l’abbia visto lo sa: c’è un trionfo che è la conseguenza diretta di tutti i tentativi falliti. Il bambino fa i suoi primi passi per la stanza, con le ginocchia piene di lividi per le cadute, e quasi non ci crede di essere proprio lui a camminare, e che quel mondo sia lo stesso di quando stava giù per terra.