Lorenza Cappanera ha superato da qualche anno la cinquantina ed è una donna soddisfatta del suo lavoro, vent’anni fa ha avuto la forza di dimettersi da archivista in prefettura a Ferrara e ha scommesso su se stessa. Ha scelto di vivere a Jesi ma non ha mai lasciato sentimentalmente Ancona, la sua città, e ha saputo mettere a frutto i suoi studi e il suo talento. Racconta e “vende” le colline delle Marche nel mondo via internet, si è inventata qualcosa che parte da casa sua e vince sui mercati globali, è riuscita soprattutto, sono parole sue, «a mettersi in contatto con un mondo pieno di senso, per anni ho lavorato staccata dalla gente del territorio nel quale sono nata e cresciuta, posso dire che è stata la mia salvezza, anche psichica. Io amo la mia fantastica regione, la mia adorata Italia, ma gli italiani devono impararla ad amare senza sfruttare la gente che ci vive e non aspettare che Dio o Marx trovi loro un lavoro, perché attaccarsi a questi falsi miti distorce la funzione stessa del lavoro che è quella invece di realizzare la propria vocazione o almeno di assecondare le proprie tendenze, non di ammiccare e fregare il prossimo».
Mi è sembrato (molto) interessante il racconto che lei mi ha fatto dell’inizio di questa sua avventura e del contesto di vizi e distorsioni dal quale è voluta coraggiosamente scappare e che (molto) avrebbe contribuito a determinare la situazione terribile di oggi: «Avevo 30 anni nel ’91 e mi ero da poco sposata, ma da molto tempo soffrivo di una depressione da mancanza di prospettive certe, sì anche allora…le grandi masse di giovani che inondavano gli uffici statali e bancari si erano fermate alla generazione dei sessantottini, detta la generazione pigliatutto, e a noi erano rimasti solo gli scarti, a me un milione e 400mila come archivista nella prefettura di Ferrara quando l’affitto di un monolocale era 500mila e, quindi, anche allora c’era il problema di come campare». Sentite, come prosegue il racconto, riguarda il passato ma parla all’oggi: «Dopo una settimana avevo già capito tutto, avevo capito come andava quel lavoro. In un’ora avevo sbrigato pratiche di una settimana e mi chiedevo: perché sono qui? Qual è la mia vita? E poi mi chiedevo ancora: qual è la funzione di uno Stato che permette a gente potenzialmente attiva di diventare dei cadaveri viventi? Io non ero nulla, uno sputo, e avevo capito cose a cui potevano arrivare tutti già tanto tempo prima. Mia madre e i miei amici mi dicevano: pensa alla pensione, e io dai…a 30 anni pensi alla pensione? Gli amici erano già entrati da anni in strutture analoghe, in posti pubblici senza senso ad alimentare una massa che forse pensava già a come far entrare, tramite raccomandazione, i loro futuri figli in posti senza senso. Una catena inutile di gente il cui scopo non mi era chiaro, ma per me, forse senza fede e senza chiesa, una cosa mi appariva chiara: non avrei mai fatto figli in una società del genere, in una società senza merito e senza senso». Poi, l’accusa impietosa, in molti casi certamente ingiusta: «Quei giovani che ora non trovano lavoro sono figli di coloro che l’hanno trovato in maniera del tutto distorta e immeritata. Potrei citare mille esempi. Nessuno, complice il Pci, la DC e poi la Chiesa e ora forse la massoneria o altri club esclusivi, ha insegnato loro a cercare il senso del loro lavoro. Nessuno gli ha detto: conosci te stesso. Nessuno gli ha insegnato a chiedersi chi sei e che cosa vuoi fare».
La crisi di oggi è una crisi seria, viene da lontano e dura da troppo tempo per non ferire in profondità. Ho già detto e ripetuto tante volte che il lavoro è la prima emergenza e tutta la politica economica deve mettere al centro gli investimenti, per ricreare una domanda interna effettiva, e una riforma vera del mercato del lavoro, per valorizzare le risorse migliori, il resto lo deve fare l’Europa cambiando per davvero. Però, quella “cultura terribile” italiana di cui parla Lorenza è il male sottile della nostra economia e della nostra società. Mi viene in mente Il comando impossibile un libro della fine degli Anni 80 di Raffaele Romanelli che racconta di uomini del calibro di Quintino Sella, Minghetti, Spaventa che volevano fare subito del Regno d’Italia uno Stato con un sistema costituzionale avanzato come quello inglese e arrivarono a ordinare ai cittadini di “essere liberi” nella stagione della sua fondazione (1860/1890). Si illudevano di imporre per legge la libertà ma non avevano fatto i conti con i familismi, i corporativismi e gli interessi locali di quella comunità. Pensare che (molto) oltre un secolo dopo sopravvive parte di quei vizi è un qualcosa che ti fa correre un brivido lungo la schiena. Sembra impossibile, ma purtroppo è così.
Pubblicato il 7 Settembre 2014