C’è la necessità di un progetto #labuonauniversitaericerca, per parafrasare il programma lanciato dal governo in ambito scolastico? E’ la domanda alla quale proveremo a rispondere nel dibattito che alle 18 si terrà a Saperi 2.0 Festa nazionale tematica PD su Scuola e Università – che si sta svolgendo a Orvieto – e al quale parteciperò insieme alla ministra Giannini e ad autorevoli rappresentanti del mondo accademico, della ricerca e delle istituzioni, tra cui Giovanni Fabrizio Bignami, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e Maria Cristina Pediccio, presidente dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale.
C’è la necessità di un progetto #labuonauniversitaericerca, per parafrasare il programma lanciato dal governo in ambito scolastico? E’ la domanda alla quale proveremo a rispondere nel dibattito che alle 18 si terrà a Saperi 2.0 Festa nazionale tematica PD su Scuola e Università – che si sta svolgendo a Orvieto – e al quale parteciperò insieme alla ministra Giannini……
Se abbiamo in mente – per usare le parole del premier Renzi – di “costruire la crescita dei prossimi vent’anni” nonché – aggiungo io – quella del più immediato futuro, allora il nostro sistema universitario e della ricerca pubblica non possono essere esclusi da un programma di interventi e di investimenti: su di essi si misurerà il reale interesse per due settori strategici sia per la promozione sociale e civile del Paese sia per la capacità di ripresa della nostra economia e per le sue prospettive di crescita a lungo termine.
Vanno assunte quindi decisioni che non possono non tenere conto dei dati di contesto, troppo spesso obliterati da informazioni superficiali, mendaci o addirittura mitologiche, quali: “troppi laureati e troppe università”, “il pezzo di carta non serve a nulla”, “un lavoro è meglio della laurea”, “in Italia non si fa buona ricerca”, “scialate le risorse investite in università e ricerca”, “le tasse universitarie sono troppo basse”.
Il Consorzio interuniversitario Almalaurea, che studia la condizione occupazionale degli studenti e dei laureati, fornisce qualche dato certo, molto utile per indirizzare le scelte di governo del sistema universitario, della sua offerta formativa e del rapporto con il mondo del lavoro.
Un primo dato, tanto semplice quanto terribile: facendo pari a 100 la spesa per ogni laureato italiano, la Francia spende 175, la Spagna 180 e la Germania 207.
La media della popolazione di 25-34 anni con istruzione universitaria dei paesi UE21 è del 36%, quella italiana è solo del 21%, cioè ultimi nell’area OCSE! A questo proposito, la Commissione Europea ha fissato di raggiungere, nel 2020, il 40% di laureati nella fascia 30-34 anni: il Governo italiano ha rivisto l’obiettivo puntando al massimo al 26-27%.
Rispetto poi al rapporto laurea-lavoro, il prof. Cammelli, che di Almalaurea è fondatore e direttore, ha fornito recentemente informazioni più puntuali, che non possono sfuggire all’attenzione della politica e del mondo produttivo, perché mostrano un paese nel quale l’ascensore sociale della formazione universitaria da noi è bloccato, mentre in Europa ancora funziona: la colpa non può essere solo della crisi economica. La responsabilità, a ben cercare, sta anche in alcune peculiarità “culturali” del capitalismo nostrano e soprattutto in quelle del suo management, familiare e “familistico”. Nel rapporto con la Germania, ad esempio, se la percentuale di imprese a proprietà e a gestione familiare italiane è simile (86 in Italia, 90 in Germania), in Germania però è bassa la percentuale di amministratori delegati e di management di famiglia (pari al 28%), mentre è molto alta in Italia, pari al 66%.
Ecco i dati. Fra il 2007 e il 2012 in Italia la quota di occupati nelle professioni ad elevata specializzazione (legislatori, imprenditori ed alta dirigenza; professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione), la più bassa in Europa, è scesa al 17% mentre in tutta l’UE è cresciuta da poco più del 21 per cento al 24%. Infatti, gli occupati con qualifica di manager in possesso del titolo di scuola dell’obbligo (o inferiore) in Italia sono ben il 28% contro il 5% della Germania, il 9% della Francia e il 19 della Spagna. I manager con laurea (o titolo superiore) in Italia sono solo il 24% mentre nell’UE sono il 53%, e nessun paese scende sotto il 51%. Il livello di formazione dei manager non è un dato neutro, né per le politiche aziendali di innovazione né per quelle relative al personale da assumere, cioè le politiche di investimento sul capitale umanano: infatti, uno studio del 2011, dimostra come un imprenditore laureato – a parità di condizioni – assuma il triplo di laureati rispetto all’imprenditore non laureato!
Ciononostante, i dati su occupazione e disoccupazione sono a favore dei laureati, anche in Italia. Tra il 2007 e il 2013, nella fase di entrata nel mondo del lavoro, il tasso di disoccupazione è aumentato di ben il 23% per coloro i quali sono in possesso solo della licenza media (di età tra i 15 e i 24 anni), del 15% per i diplomati (età 18-29) e solo del 6,5% per i laureati (età 25-34). Senza dimenticare che il tasso di occupazione è del 76% per i laureati e del 63% per i diplomati di scuola media superiore. A favore dei laureati anche la retribuzione: fatta 100 quella dei diplomati, per i laureati è pari a 148!
A questo punto, è utile sfatare un altro mito, quello che vorrebbe una percentuale troppo alta di laureati in discipline umanistiche. In Italia, infatti, la percentuale di laureati e di dottori di ricerca nelle discipline tecnico-scientifiche coincide con quella della Germania: 40%, superiore di 3 punti a quella di Francia e UK e di ben 14 rispetto a quella Usa, dove, peraltro, l percentuale dei laureati in scienze sociali, economiche e giuridiche arriva al 45% rispetto al 38 nostrano. Per quanto riguarda l’area umanistica siamo al 22%, mentre la Germania è al 31, il Regno Unito al 27% e gli Usa al 29!
Anche i dati sulla percentuale di chi ha un lavoro a 5 anni dalla laurea restituiscono una realtà un po’ diversa da quella propinata dai luoghi comuni: tra le prime 5 stanno le professioni mediche con il 97% di chi lavora (non sarà che la straordinaria vocazione per il camice bianco che si registra in Italia dipenda anche da questo?), seguono ingegneria con il 92%, le professioni economico-statistiche con il 91%, architettura con l’87%, quelle politico-sociali all’84%.
Questi dati risultano ancora più interessanti se associati a quelli relativi al titolo di studio dei genitori dei laureati, a conferma che il sistema sociale ed economico italiano è bloccato e corporativo e perpetua, in buona sostanza, le condizioni di nascita. Tra i laureati di primo livello, infatti, ben il 74% ha entrambi i genitori con un titolo di studio inferiore alla laurea, percentuale che si abbassa di ben 20 punti (54%) tra giovani che escono da laurea a ciclo unico (ad esempio quella medica)!
Sempre Almalaurea ci dice, poi, che soltanto il 30% dei 19enni si iscrive alle università, e che questi provenendo da famiglie più socialmente agiate. Il restante 70% dei giovani non accede agli studi universitari spesso per l’assenza di una seria ed efficace politica del diritto allo studio. Nonostante che spesso si leggano infondate affermazioni contrarie, la contribuzione universitaria pagata dagli studenti universitari italiani e dalle loro famiglie è tra le più alte in Europa, a fronte di risorse per il diritto allo studio tra le più basse in Europa. Infatti, la contribuzione universitaria media italiana è la terza in Europa (dati dell’OCSE), dopo quelle del Regno Unito e dell’Olanda, e vi sono molti Paesi in cui l’università è gratuita: Austria, Polonia, Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia, Slovenia. D’altra parte, gli studenti italiani che fruiscono di borse per il diritto allo studio sono 141.310, a fronte di 305.454 spagnoli, 440.217 tedeschi e 629.115 francesi!
Ma tra i dati di contesto, seppur sinteticamente, non possiamo trascurare il problema della forte diminuzione in atto del numero di professori universitari che porteràà, se non arginata, ad avere nel 2018 addirittura la metà dei professori ordinari che erano in servizio nel 2008; tale depauperamento, unitamente all’esaurimento del ruolo dei ricercatori a tempo determinato avrà inevitabili gravi conseguenze sulla didattica e sulla ricerca negli atenei. La condizione lavorativa precipita, poi, se si prendono a riferimento i ricercatori dato che 1 su 2 è costretto ad andare avanti solo grazie agli assegni i ricerca o altre forme di contratti “precari” che, in sostanziale assenza di turnover, non possono trasformarsi in posti di ruolo per i giovani e le giovani più meritevoli e prepaarate. Una straordinaria e terribile perdita di competenze italiane (di cui beneficiano sempre più altri paesei, non solo europei) accompagnata da una condizione di incertezza che renda la vita ogni giorno più difficile e frustrante.
Veniamo, ora, alla ricerca.
La spesa pubblica e privata per Ricerca e Sviluppo come percentuale del PIL in Italia è 1,26 (0,68 sostenuta dalle imprese); in Spagna è 1,39 (0,72 sdi); nel Regno Unito 1,80 (1,10 sdi); in Francia 2,24 (1,41 sdi); in Germania 2,80 (1,88 sdi); in Svezia 3,39 (2,33 sdi).
Siamo fanalino di coda anche per quanto riguarda gli investimenti pubblici e provati in ReS, tanto da parte dello Stato e delle istituzioni pubbliche, quanto da parte delle imprese, che in Italia sono piccole e piccolissime e quindi tendono ad investire meno in questo settore. L’esito scontato di questa scelta è che l’Italia ha una minore capacità di produrre e diffondere conoscenza.
Eppure, come ben evidenziato anche da uno studio della Banca d’Italia, “se rapportato alle risorse impegnate e ai ricercatori, assai poco numerosi in rapporto alla popolazione, l’output in termini di ricerca prodotta risulta elevato. Nonostante il basso e decrescente sostegno finanziario pubblico alla ricerca, la qualità media della ricerca… non è lontana rispetto a paese prossimi come la Francia…”. Ancora “In termini di quantità di pubblicazioni prodotte dal complesso dei ricercatori pubblici e privati, l’Italia si posiziona sempre al quarto posto tra i paesi europei, qualsiasi analisi internazionale si consideri… La quota di lavori italiani sia cresciuta nel tempo, pure nell’ultimo decennio, nonostante l’ingresso di grandi paesi come la Cina e livelli di spesa complessivamente inferiori a quelli dei principali paesi sviluppati. Suddividendo in due sottoperiodi gli anni Duemila, la quota italiana è rimasta invariata, mentre è diminuita per Stati Uniti, Francia e Germania, è leggermente cresciuta per la Spagna ed è molto aumentata per la Cina… Per quanto complesse possano essere le analisi comparative, misure di “produttività” aggregata mostrano per l’Italia livelli tra i più elevati nel confronto tra i principali paesi. Ad esempio, nel rapporto britannico International Comparative Performance o f the UK Research Base del 2011, in cui si utilizzano i dati bibliometrici della banca dati Scopus, l’Italia figura – tra i paesi avanzati presi in esame – nel novero di quelli con un elevato numero di pubblicazioni e di citazioni per unità di spesa, inferiore soltanto a Regno Unito e Canada, ma superiore rispetto a Francia, Germania, Stati Uniti, Giappone e Svizzera… Se si rapporta il numero di pubblicazioni al numero di ricercatori, l’Italia è di gran lunga il primo tra i paesi considerati. In base a nostre elaborazioni su dati SCImago e OCSE, nel 2010 sono stati pubblicati 726 articoli ogni mille ricercatori italiani, contro i 550 del Regno Unito e i 400 circa di Francia e Germania…”.
Insomma, a dispetto degli scarsi investimenti pubblici e privati, nonostante l’alto numero di ricercatori precari (e quindi privi di quella serenità e libertà che condiziona inevitabilmente e mortifica il loro fare ricerca) e sebbene le politiche di valorizzazione del personale di ruolo siano inesistenti, in Italia facciamo tanta e buona ricerca. Ma la condizione potrebbe migliorare? Certo. Intanto dando risposta alle 3 questioni appena enunciate e poi garantendo agli Enti pubblici di ricerca e alle università più autonomia, anche attraverso nuovi modelli organizzativi (che prevedano, finalmente, un’unica carriera tra Epr e università), meccanismi di incentivazione e uno status specifico che garantiscano la flessibilità necessaria alla rapida competitività internazionale.
E soprattutto migliorerebbe se governo e parlamento, nell’approntare le misure sopra delineate, prestassero attenzione alle istanze di chi la ricerca la fa davvero, sul campo: di policy cadute dall’altro (quattro in 10 anni) non se ne sente proprio il bisogno.
Insomma, il sommario quadro di contesto che ho provato a tracciare (e che, per brevità, ha tralasciato molte questioni) indica che di cose da dire ne avremo molte, stasera ad Orvieto.
E, come legislatori, abbiamo anche da fare anche molte cose, per tradurre in fatti quelle parole, a partire dalla imminente legge di stabilità. Ne elenco alcune.
Innanzitutto riordinare le norme sul finanziamento statale (FFO) delle università statali in modo da restituire autonomia budgetaria agli atenei e ai loro dipartimenti e da poter sostituire le norme di blocco parziale del turnover (che stanno soffocando gli atenei per carenza di personale in assenza di reclutamento: a questo proposito occorre prevedere un piano straordinario triennale di assunzioni contingentate di professori ordinari e di ricercatori a tempo determinato, che si aggiungerebbe a quello già stabilito dalla legge nel 2010 per i professori associati: al termine del triennio si può provvedere alle nuove assunzioni e agli incrementi stipendiali utilizzando esclusivamente le risorse liberate dai pensionamenti, garantendo così un sistema regolare di assunzioni e di carriere che purtroppo manca ormai da molti anni). Lo stesso dovrebbe essere fatto per il personale e per il finanziamento statale (FOE) agli enti pubblici di ricerca. Inoltre, riallineare gradualmente il finanziamento statale alle università e agli enti pubblici di ricerca almeno alle medie europee.
Poi dobbiamo riordinare le norme sulla contribuzione studentesca abbandonando gli indicatori collegati al FFO (per evitare l’assurdo di tasse studentesche che potrebbero aumentare quando aumentasse il finanziamento statale e viceversa) e quelli eccessivamente penalizzanti per gli studenti in ritardo (come se ogni ritardo dipendesse dal fatto che si pagano poche tasse, il che non è affatto vero) e passando invece a condizioni di contribuzione media (correlata al reddito medio regionale) con opportune regole che garantiscano da un lato maggiore progressività, dall’altro l’esenzione per i redditi medio-bassi (ceto medio impoverito). Occorre poi completare la normativa del diritto allo studio con i LEP.
È necessario poi ripristinare la norma che stabiliva che una quota prefissata del FIRST (Fondo Investimenti Ricerca Scientifica e Tecnologica) sia riservata al finanziamento di progetti di ricerca in tutte le discipline liberamente proposti da professori e ricercatori delle università e degli enti pubblici di ricerca e stabilire che questa quota sia pari almeno al 30%. Senza questa norma la ricerca universitaria (di qualità) sparirà per la sparizione dei PRIN e dei FIRB (che fanno parte del FIRST) e con essa la natura stessa delle università come luoghi in cui coesistono inscindibili didattica e ricerca che si sostengono a vicenda.
Dobbiamo anche ripensare ai meccanismi di reclutamento e di carriera dei docenti universitari, ora che l’abilitazione scientifica nazionale è stata trasformata “a sportello” (cioè con valutazione scientifica del curriculum del singolo candidato e non invece con valutazione comparativa dei candidati di tipo concorsuale). Dobbiamo necessariamente semplificare la selva contrattuale pre-ruolo, valorizzare il dottorato di ricerca anche nel mondo del lavoro ed eliminare le norme che limitano gli anni di precariato e che tra breve porteranno alla scadenza di migliaia di contratti senza possibilità di rinnovo, mentre le assunzioni sono sostanzialmente bloccate da sei anni. Lo stesso vale per i ricercatori degli enti pubblici di ricerca. Dobbiamo puntare ad una carriera unica con passaggi di fascia regolati da valutazione.
È necessario chiarire e riordinare le norme riguardanti la valutazione e il ruolo e i compiti dell’ANVUR, puntando ad una valutazione che aiuti a migliorare piuttosto che sanzionare e punire. Altrettanto necessario è semplificare, ove possibile, le norme che regolano la gestione e la valutazione delle università evitando criteri meramente quantitativi e adempimenti puramente burocratici.
Infine, a tre anni dalla sua approvazione occorre valutare molto attentamente i risultati ottenuti dall’applicazione della “Legge Gelmini” (L. 240 del 2010) rispetto a quelli attesi, apportando tutte le modifiche legislative necessarie per rilanciare l’istruzione universitaria e la ricerca in un quadro di maggiore autonomia istituzionale e di deburocratizzazione. Lo stesso andrebbe fatto per le norme sull’autonomia didattica (dm 270/2004).