Messi insieme, sapevano a malapena che cosa fosse l’inflazione. Figurarsi la deflazione (o Keynes), oggi citata da una comunicazione che talvolta non tiene vergogna, come nel caso dell’evento storico che lega in qualche modo le presenti ambasce economiche dell’Italia a quelle di mezzo secolo e passa fa.
Magari fosse vero il paragone col Cinquantanove del Novecento. Matteo Renzi potrebbe brindare a spumante di Valdobbiadene e Padoan e Cottarelli potrebbero tornare felici ad attività meno stressanti nella Grande Mela. Vorrebbe dire che siamo alla vigilia del «boom», come lo battezzò il britannico Daily Mail, raccontando del «miracolo economico del continente europeo».
Guido Carli – allora ex ministro tecnico di un tipo che si chiamava Adone Zoli e di lì a poco governatore della Banca d’Italia al posto di Donato Menichella, il quale bollava il telefono in ogni famiglia come un’inutile avventura consumistica perché il telefono «serve solo al medico condotto e all’ostetrica» – lo ammise: «Il miracolo economico dell’ultimo
biennio degli anni Cinquanta era del tutto inaspettato perché nessuno aveva previsto le conseguenze di decisioni prese forse con altre motivazioni». Il piano Marshall, il Mec, la libertà dei cambi. Fatto sta che nel Cinquantanove, l’anno della deflazione, che è una diminuzione dei prezzi al consumo derivante dalla scarsa domanda di beni e servizi, con un possibile avvitamento nell’ulteriore depressione economica, parte il quadriennio del miracolo.
Purtroppo, mai paragone storico fu dunque più fallace. Con i poveri Segni, Tambroni e soci stralunati, i consumi privati, dopo la stasi, cominciarono a volare: le famiglie in possesso di un frigorifero passano in tre anni dal 13 al 55 per cento, quelle col televisore dal 12 al 49 per cento. Tanto che Giorgio Amendola, leader comunista ma considerato allora il più liberista dei liberisti di sinistra, esclama: «Noi non ci faremo incantare dalla civiltà dei frigoriferi e dei televisori! ». Non si fece poi incantare neanche Ugo La Malfa, grande protagonista dei dibattiti economici dell’epoca, che anni dopo non se la prese con i frigoriferi, ma con la televisione a colori, che in Italia non doveva proprio entrare. In quegli anni, che oggi vengono a sproposito citati come paragone delle attuali intemperie, il reddito nazionale aumentò del 7,5 all’anno, gli impiegati e gli operai, certi del loro posto di lavoro, facevano la fila per comprare la Seicento o la Cinquecento della Fiat: da un milione e 400 mila auto in circolazione nel 1958 si passò a quasi 4 milioni nel 1963, da una ogni 24 italiani a una ogni 11, mentre gli aumenti salariali degli operai-consumatori oscillavano tra il 5 e il 6 per cento.
«La società può permettersi un saggio di inflazione meno elevato o addirittura nullo, purché sia disposta a pagarne il prezzo in termini di disoccupazione », diceva l’economista Robert Slow, ponendo la diretta relazione tra inflazione e disoccupazione. Oggi, con il numero dei disoccupati che stiamo pagando, anche noi lo sappiamo bene, pur senza trovare — purtroppo — riferimenti nel Cinquantanove. Adesso niente inflazione, più disoccupazione, carrelli della spesa all’osso, economia che si avvita. Quelli che gli 80 euro al mese di Renzi non li vanno a spendere al supermercato non hanno certo bisogno di conoscere la curva di Phillips per vincere l’incertezza non di domani, di oggi.
“Macchine o maccheroni”? Così si intitola — guarda un po’ come è attuale — una celebre polemica di più di mezzo secolo fa tra l’antico governatore della Banca d’Italia Menichella e il leader liberale Giovanni Malagodi. Meglio favorire le aziende per l’acquisto di beni strumentali o le famiglie sui beni di consumo? Più beni di consumo significa meno inflazione, domanda soddisfatta nel medio termine e ciò — diceva Menichella — aumenta il potenziale di sviluppo perché l’aspettativa di minore inflazione incide positivamente sull’aspettativa degli investitori. O più inflazione rispetto al meno di oggi? E poi: “Ruota o rotaia”? Il Pci di allora non aveva dubbi a favore dei treni, mentre il capo della Fiat Vittorio Valletta preferiva ovviamente i nastri d’asfalto.
Il balletto degli economisti, grandi e piccoli (oltre che degli interessi) viene da lontano, aruspici di una scienza che li porta a pontificare insieme ai politici negli studioli televisivi, ma talvolta, nel mondo, conduce anche alle guerre. Keynes è lontano e bistrattato da molti, Einaudi è un campione disperso della Repubblica italiana. Ed è difficile oggi chiedere a un qualsivoglia economista se sia meglio la deflazione o l’inflazione controllata. Forse una vera riflessione sull’ormai mitico Cinquantanove, assunto ieri come improprio paragone, risulterebbe persino utile, nonostante la similitudine storica sia del tutto improponibile, se non nelle semplificazioni che sono ormai il pane della nostra vita quotidiana.
Scriveva il governatore della Banca d’Italia Guido Carli nelle sue Considerazioni finali: «Gli aspetti congiunturali che hanno caratterizzato l’attività economica italiana durante il 1960 sono stati originati, almeno in parte, dalle vicende delle due annate precedenti». Per l’appunto, il Cinquantotto e il Cinquantanove: «La formazione di una elevata liquidità e il ribasso dei tassi d’interesse avevano fornito la premessa per quello sviluppo che poi si ebbe nella seconda metà del 1959, allorché l’espansione della domanda estera, prima, e l’aumento degli investimenti produttivi, poi, dettero nuovo impulso all’attività economica».
Quell’anno, Celentano cantava “Il tuo bacio è come un rock”, Italo Calvino scriveva “Il Cavaliere inesistente” sul ruolo degli intellettuali nella società di massa del miracolo economico, e il Mago Zurlì conduceva lo “Zecchino d’Oro”. Ora facciamo di latta?
Pubblicato il 30 Agosto 2014