Le parole cominciano a farsi pesanti. Di fronte alla crisi europea, il premio Nobel Joseph Stiglitz parla ormai, apertamente, non più di semplice recessione, ma di vera e propria depressione: il cupo scenario di un’economia che affonda sempre di più e non sembra capace di scuotersi. Al confronto, il «decennio perduto» del Giappone, a cavallo del secolo, appare quasi una prospettiva benigna. E ci sono confronti anche più imbarazzanti. Se quella degli anni ‘30 viene chiamata la Grande Crisi, forse bisogna cominciare a chiamare quella in corso la Grandissima Crisi: a sette anni dal suo innesco, l’economia dell’eurozona sta peggio di quanto stesse l’economia europea a sette anni dal 1929.
«Magari fossero gli anni ‘30» ha scritto Nicholas Craft, lo storico inglese dell’economia che ha messo a confronto l’Europa dopo il «venerdì nero» di Wall Street e l’Europa dopo la domenica buia del collasso Lehman. L’impatto iniziale della crisi fu più brusco, ottant’anni fa, ma la ripresa più vivace e veloce. Soprattutto, in una parte d’Europa. I paesi del blocco della sterlina (Regno Unito e paesi scandinavi, in sostanza) decisero già nel 1931 di abbandonare il collegamento con l’oro. La sterlina fu svalutata, ma i governi furono in grado di varare decisive misure di stimolo monetario e fiscale. Al contrario, i paesi dell’oro (Francia, Italia, Olanda) restarono ancorati al gold standard, sottoponendosi ad un bilancio d’austerità dopo l’altro, fino a che il circolo vizioso fra prezzi in caduta, disoccupazione crescente e tagli di bilancio sempre più grandi non li costrinse a mollare l’oro e a svalutare.
Era l’autunno del 1936: la ripresa comincia allora. Oggi, l’economia europea è ferma, ancora al di sotto ai livelli pre-crisi. Con la Germania che perde anch’essa colpi, praticamente nessuno prevede un rimbalzo nella seconda metà dell’anno. Il risultato è che, a fine 2014, guardando indietro di sette anni, l’eurozona risulterà più lontana dalla ripresa anche dei fanatici del gold standard del secolo scorso, alla stessa fase della traiettoria post-crisi.
I giudizi di una parte crescente della comunità degli economisti sono aspri. Ad un recente convegno di premi Nobel, in Germania, Stiglitz e i suoi colleghi hanno escluso circostanze eccezionali e hanno parlato esplicitamente di «fallimento della politica», cioè della strategia di austerità imposta da Berlino. Chiamata in causa, Angela Merkel ha risposto a muso duro, ribadendo che è possibile crescere e, contemporaneamente, tagliare i bilanci. Tuttavia, l’attaccamento, in particolare della Germania, al rigido rispetto dei parametri dell’austerità sta già producendo risultati paradossali e le contraddizioni rischiano di esplodere. La lunga crisi, infatti, ha ridotto il Pil potenziale (cioè quello che risulterebbe con il massimo di occupazione e investimenti) ad esempio dell’Italia, perché ha intaccato, con la chiusura di impianti e l’espulsione di manodopera, la sua capacità produttiva. Potrebbe essere una curiosità da econometristi, ma il Pil potenziale è cruciale per determinare il deficit strutturale, cioè il disavanzo pubblico che ci sarebbe, anche con la congiuntura più favorevole. E il deficit strutturale è il parametro chiave delle nuove regole europee. Il risultato è perverso. Se il Pil potenziale si abbassa, si allarga il deficit strutturale, cioè il disavanzo che ci sarebbe anche con l’economia a pieno regime, visto che quel pieno regime non è poi granché. Deficit strutturale più alto significa austerità più severa, come rischia di sperimentare l’Italia nei prossimi mesi.
In altre parole, un devastante circolo vizioso in cui le regole sull’austerità impongono automaticamente sempre più austerità, mentre l’economia va in catalessi.
Finora, le speranze di rompere il circolo vizioso si sono appuntate sulla Bce, ma i margini di manovra di Mario Draghi appaiono ristretti. Il compromesso raggiunto a giugno fra falchi e colombe, nel board di Francoforte, ha dato via libera a massicce iniezioni di liquidità attraverso le banche, ma con l’intesa di aspettare fine anno, prima di decidere nuove e più incisive misure. In una parola, prima di sparare la cartuccia del «quantitative easing», l’acquisto massiccio di titoli (in particolare di Stato) sui mercati, nel tentativo di inondare e drogare l’economia, come hanno già fatto le banche centrali negli Usa, in Gran Bretagna e in Giappone. Tuttavia, di fronte all’avanzare della crisi, anche il «quantitative easing » non appare più, ad alcuni, l’arma decisiva. «La Bce — ha detto un analista — ha perso l’attimo ». Avrebbe dovuto essere varata un anno fa, con i tassi ancora positivi e un’economia ancora immune dalla spirale psicologica della deflazione.
Se i margini della politica monetaria si sono esauriti, cosa resta? Dall’ala keynesiana degli economisti si alza, per la prima volta, in modo esplicito l’appello ad una massiccia manovra espansiva di bilancio: investimenti pubblici, rimpolpamento dei redditi. Perché, anche se, in prospettiva, le riforme di struttura sono importanti, qui ed ora quello che si impone è un massiccio rilancio della domanda, che rianimi subito una congiuntura esangue, nella più pura ortodossia keynesiana. L’appello è abbastanza convinto da aver spinto un economista autorevole come Willem Buiter (capoeconomista a Citigroup) a pubblicare un ponderoso saggio accademico, denso di equazioni, per valutare l’efficacia di quello che gli americani chiamano «helicopter money», soldi buttati dall’elicottero (in una versione più elegante, assegni che arrivano dal Tesoro a casa dei contribuenti). Funziona, assicura Buiter. Sempre.
Pubblicato il 24 Agosto 2014