La cultura deve guidare un nuovo progetto di Paese. È necessario ed è possibile. Ma, per farlo davvero bisogna liberare le energie migliori presenti nella società e nel tessuto economico, nel solco di quella cultura delle opportunità che ha fatto grande l’Italia e l’Europa.
In questi primi mesi il ministro Franceschini, proseguendo anche il lavoro avviato dal governo Letta, ha dato importanti segnali di attenzione verso un settore che per troppi anni ha subito l’assenza di azioni organiche e incisive di riforma. L’art bonus, l’introduzione di figure manageriali alla direzione dei musei statali, il ruolo riconosciuto allo sviluppo del contemporaneo e alle periferie urbane, alla formazione e all’educazione sono elementi qualificanti di una nuova politica per la cultura.
La strada è quella giusta. Ma serve più coraggio per superare le emergenze, ormai croniche, e abbattere antichi steccati ideologici e resistenze burocratiche per attuare una politica realmente rivoluzionaria.
Perché i musei, le biblioteche, i teatri sono, e tali devono essere considerati, un servizio pubblico, rivolto, quindi, a tutti i cittadini e alle famiglie con l’obiettivo di avvicinarli all’arte e di produrre cultura.
Se bastano pochi dipendenti in sciopero a bloccare la Bohème all’Opera di Roma con danni economici enormi e lesioni ai diritti di ogni cittadino, qualche problema c’è. Se appare normale che il 15% degli istituti statali nel 2013 non ha avuto né visitatori, né introiti e che ben un terzo di tutti i musei, le aree archeologiche e i monumenti statali ha una media di 13 visitatori al giorno, vuol dire che la malattia è grave.
Se non reagiamo con il massimo della determinazione di fronte al crollo degli spettatori nei teatri, o dei livelli di partecipazione culturale da parte degli italiani, significa che stiamo diventando un Paese incolto nonostante la storia e i monumenti che ci circondano. Se siamo indifferenti di fronte alla chiusura di archivi, biblioteche, teatri, festival e di centinaia di compagnie dello spettacolo e imprese della moda, nel design, nella produzione artistica allora non torneremo mai a essere un Paese che produce cultura, innovazione e benessere.
È stata la cultura la ricetta italiana al progresso. Non può essere una carta sacrificata nel gioco distruttivo della “peggiocrazia”. Per questo ci aspettiamo dal Governo ulteriori passi e il coraggio di alcune scelte.
Uno. Puntare su una vera autonomia gestionale per un’offerta culturale moderna, efficiente, al passo con l’innovazione tecnologica.
L’arretratezza della gestione di gran parte del patrimonio culturale pubblico è, purtroppo, cronaca di ogni giorno ed è nota a tutti. Non basta certo prevedere figure manageriali nei 20 grandi poli museali per risolvere i problemi, se non si assicura alle strutture indipendenza sul bilancio, sulla programmazione, sulla governance e sugli assetti del personale.
Perché allora non proseguire e dare forza al percorso che negli ultimi venti anni ha contribuito in modo determinante alla modernizzazione dell’offerta culturale e della gestione dei beni culturali?
Il Museo Egizio, bene statale, dopo la trasformazione in fondazione ha raggiunto una capacità di autofinanziamento del 90% circa, aumentando l’occupazione stabile del 20%, e la costituzione del Consorzio per la gestione del complesso della Venaria Reale ha dimezzato i disoccupati nell’area in pochi anni.
Ma gli esempi sono molti: a Roma l’Azienda Speciale Palaexpo con 8,5 milioni di ricavi propri nel 2013 si autofinanzia per il 53% compensando una diminuzione dei contributi pubblici del 30%; in Sicilia, invece, regione dove la gestione dei beni culturali esprime paradossi in cui musei con 40 dipendenti incassano 3mila euro l’anno, la Fondazione Federico II, che gestisce il complesso del Palazzo dei Normanni di Palermo, nel 2013 ha avuto introiti per 1,9 milioni di euro grazie a oltre 360mila visitatori, a fronte di risorse pubbliche vicine allo zero; a Venezia la fondazione che gestisce unitariamente tutta la rete dei Musei Civici, compreso Palazzo Ducale che è dello Stato, ha un bilancio di oltre 25 milioni di euro finanziato al 98% da entrate proprie e un numero di visitatori, 2,3 milioni, quasi pari a quelli di Pompei.
Le esperienze di gestioni autonome pubblico-private hanno, dunque, dimostrato di svolgere bene un servizio pubblico con beneficio per la comunità, maggiore efficienza organizzativa e capacità di autofinanziamento. Garantire l’autonomia ai soggetti gestori, semplificare le procedure e sostenere i processi di affidamento dei servizi pubblici locali a fondazioni ed enti autonomi deve diventare, dunque, una priorità nella riforma dei nostri beni culturali.
D’altronde occorre ricordare, quando richiamiamo i positivi esempi dei grandi musei stranieri, che quasi tutti sono enti autonomi, con meccanismi di gestione analoghi alle imprese, ma con una rigorosa programmazione culturale pubblica.
Lo sono il Louvre (Établissement Public Autonome), che riceve dallo Stato 98 milioni di euro l’anno ma ne ricava da entrate proprie 101, o il Museo del Prado (Ente di diritto pubblico) che ha un bilancio di 44 milioni di euro dei quali il 60% autofinanziati, o la Tour Eiffel affidata a una Spa che produce ricavi per quasi 6 milioni di euro l’anno.
Due. Favorire l’affidamento di siti culturali e di reti territoriali alle imprese e al privato sociale. L’Italia è notoriamente un museo diffuso non solo per i 50 siti Unesco riconosciuti, il numero più alto al mondo, ma anche in virtù di 46.025 edifici storici, 3.847 musei, 1.200 teatri e un ricchissimo patrimonio di tradizioni culturali immateriali.
La gran parte di questa ricchezza è di proprietà pubblica, in particolare dei Comuni che ne detengono oltre il 42%, ma solo in rare occasioni l’apparato pubblico, statale in particolare, si è dimostrato all’altezza dei beni che possiede.
È giunto il momento che lo Stato faccia un passo indietro rispetto alla gestione diretta. Perché non pensare a un programma volto a favorire progetti di valorizzazione per rendere fruibili e vitali luoghi altrimenti chiusi, non valorizzati, destinati all’oblio, anche coinvolgendo i giovani professionisti della cultura e prevedendo l’introduzione di agevolazioni per lo start up d’impresa in questo settore che può diventare un bacino di nuova e qualificata occupazione?
E, quindi, perché non affidare a soggetti privati, anche non profit, la gestione di musei e siti minori che lo Stato non riesce a valorizzare? Basterebbe un sistema di regole chiare ed efficaci.
La cultura può offrire una visione dello sviluppo, dare risposte ai temi della qualità della vita nelle nostre città, alla fame disperata di lavoro, alla riaffermazione della bellezza nella realtà di ogni giorno.
Se vogliamo che questo accada e i beni culturali non siano un peso ma una vera opportunità di conoscenza e di crescita è arrivato il momento di applicare anche nella cultura l’articolo 118 della Costituzione che afferma il principio della sussidiarietà e della collaborazione tra diversi livelli di governo e soggetti privati e sociali. Come a dire che la cultura deve essere un obiettivo di tutti e che ognuno deve fare bene la propria parte.
Pubblicato il 24 Agosto 2014