I ravvicinati anniversari della scomparsa, a dieci anni di distanza, di Alcide De Gasperi e di Palmiro Togliatti poco si prestano ad effimere polemiche agostane. Aiutano semmai a riflettere su di un’Italia abissalmente lontana: un’Italia che ha saputo rialzarsi dopo un disastro immane e costruire solida democrazia pur misurandosi con condizionamenti pesantissimi (interni e internazionali, politici e culturali). Aiutano a interrogarsi, anche, su di un nodo centrale: come si è passati dal sistema dei partiti del dopoguerra, cui si affidava con fiducia una società civile intrisa di sofferenze e di speranze, alla crisi verticale degli anni Ottanta e Novanta e al suo ulteriore degradare nei decenni successivi? Ove a questo si ponga mente è facile comprendere perché il dibattito sui primi anni del dopoguerra abbia progressivamente abbandonato le controversie sulle “occasioni perdute” e si sia trovato quasi insensibilmente a interrogarsi sulla straordinaria opera che fu allora compiuta. All’indomani del 2 giugno del 1946 Piero Calamandrei parlò della vittoria della Repubblica come di un “miracolo della ragione”: si è tentati di dare un valore ancor più estensivo a quel giudizio, comprendendovi anche le passioni e le tensioni.
Non era del tutto scontato, e certo non per tutti, che il partito togliattiano, segnato com’era dal leninismo-stalinismo, sarebbe diventato un solidissimo baluardo della Repubblica democratica. Non fu lineare il percorso che lo portò ad abbandonare la svalutazione della “democrazia formale” e ad identificare progressivamente la “democrazia sostanziale” con la Costituzione: lo ha sottolineato bene alcuni anni fa Pietro Scoppola, mettendo appunto a confronto i due leader. E aggiungendo subito che l’idea di democrazia era incerta allora anche nel mondo cattolico, segnato dall’esperienza del fascismo: e portato, in quell’area oltranzista che De Gasperi dovette combattere (fortemente presente oltre Tevere e nell’Azione Cattolica di Gedda), a pensare semmai ad uno stato autoritario, più simile al Portogallo salazariano che alle democrazie occidentali. Si aggiunga che poco si prestava ad una “pedagogia democratica” l’Italia che usciva dal fascismo e dalla guerra. «Il volto della patria aveva qualcosa di apocalittico», ha scritto lo stesso Togliatti evocando quel che vide giungendovi dall’Urss nel marzo del 1944: «I corpi e gli animi erano malati come per una febbre in cui si mescolavano la stanchezza, l’affanno per il presente e per il futuro, la ricerca ansiosa del necessario per vivere». E in un breve volger di tempo un partito di poche centinaia di militanti si trovò ad essere un’organizzazione di oltre due milioni di iscritti, che vi portavano tumultuosamente istanze radicali di rinnovamento. È stata evocata spesso, e con buone ragioni, la “doppiezza comunista” ma alla lunga distanza essa ci appare uno strumento volto non tanto a scardinare la democrazia quanto a coinvolgervi larghe masse. E altrettanto fondamentale ci appare sul versante opposto la capacità di quella Dc di rivolgersi alle «così dette masse grigie, pigre, le masse lente», per dirla con De Gasperi. Era fondamentale coinvolgerle nella costruzione della Repubblica: per contrapporle alle sinistre, certo, ma anche per sottrarle alla disastrosa influenza della destra qualunquista e monarchica, se non fascista. Rischio concretissimo fra il 1946 e il 1947 e poi di nuovo nei primi anni Cinquanta, in reazione alle misure riformatrici che quella Dc seppe pur fare ma anche con il concorso attivo di un “partito romano” ostile a De Gasperi e molto vicino a Pio XII.
Il quadro era reso ancor più aspro dal clima e dal vissuto della guerra fredda: agli uni e agli altri, in totale sincerità, la vittoria dell’avversario appariva una vera catastrofe, coincidente con la scomparsa del proprio mondo e dei propri valori. E foriera di drammatici rischi internazionali, come il calare della “Cortina di ferro” e poi la guerra di Corea vennero a confermare. Attorno alla Dc si saldarono ulteriormente in quel clima anche apparati e culture dello Stato, propensioni ed umori cresciuti e consolidati durante il fascismo: e la chiamata a raccolta contro la “quinta colonna” nemica operante nel Paese (proprio così fu detto) rese ancor più impalpabile il confine fra una “democrazia protetta” e una democrazia mutilata. Fortemente mutilata: lo confermano le misure di sorveglianza e discriminazione contro le sinistre (sino al mantenimento del Casellario Politico Centrale, ampliato a dismisura dal fascismo), il “congelamento” — cioè la mancata applicazione — della Costituzione, e fin la conservazione delle norme liberticide del Testo unico fascista di Pubblica sicurezza. Non meno profonde del resto erano le contraddizioni del Pci togliattiano: capace di unire lo stalinismo più aspro a quel ruolo di
“liberalismo d’emergenza” che Anna Maria Ortese pur gli riconosceva, nell’Italia clericale e reazionaria dei primi anni Cinquanta. Certo è che la discriminazione e l’annullamento dei dissidenti era solo la spia di qualcosa di più profondo, che atteneva alle modalità stesse dell’“essere comunista”: una militanza totalizzante come “scelta di vita”, la subordinazione dell’iscritto al partito, l’assunzione dell’“individualismo” come disvalore e così via.
In altri termini, non capiremmo né Togliatti né De Gasperi se non li collocassimo in un’Italia scomparsa da tempo, quasi “antropologicamente” diversa (ce lo ricordano le straordinarie immagini dei funerali di Togliatti scattate da Mario Carnicelli): un’Italia che hanno contribuito a cambiare in meglio. E vanno estese ad entrambi le parole che Giorgio Bocca scrisse sul leader comunista: non gli facciamo onore negandone le contraddizioni ma comprendendo davvero quanto le abbia vissute in profondità. Li divideva quasi tutto, ma la capacità di guardare al futuro era una cifra comune: e forse anche per questo possono essere ricordati insieme.
Pubblicato il 21 Agosto 2014