Da oggi farsi un selfie con l’autoritratto di Rembrandt come sfondo è permesso. Uno dei templi dell’arte, la National Gallery, ha cancellato il divieto di scattare foto alle opere della sua collezione permanente, della quale Rembrandt è una delle attrazioni, e in Gran Bretagna è partita la polemica. Davanti alla difficoltà di controllare l’uso di smartphone e tablet da parte dei visitatori — se per cercare notizie su un’opera o per scattare foto — già il Louvre e il Moma avevano ceduto, mentre nella sua riforma il ministro ai Beni Culturali Dario Franceschini propone la stessa cosa, anche lui suscitando polemiche.
Nel dibattito inglese, c’è chi difende il selfie, e lo scatto a un dettaglio di un quadro, magari per ristudiarselo a casa, come un vero passo avanti per l’arricchimento culturale. Dall’altro lato, c’è chi si preoccupa della dissacrazione. Uno per tutti, Michael Savage, autodefinitosi nel suo blog «storico dell’arte scontroso », che critica la «fine dell’ultimo bastione della quieta contemplazione». Ma anche il Guardian si è schierato, con un editoriale contro coloro che «preferiscono fotografare ed essere fotografati invece di guardare» allargando le critiche ai musei che altrove nel mondo già lo permettono, come il Louvre appunto. Il critico d’arte Barrie Garnham pensa più concretamente ai flash e fa l’esempio di un altro museo londinese, la Wallace Collection: «Lì c’è un’ampia selezione di acquerelli schermati perché anche la luce normale li danneggerebbe », spiega allarmato, mentre l’esperto Sam Cornish, dal sito Abstract Critical deplora: «La cosa più grave è la cultura del “non guardare” che le macchine fotografiche promuovono».
Ma come spiega il dettagliato comunicato della National Gallery, emesso nei giorni scorsi, «l’introduzione del wi-fi gratuito nelle aree pubbliche del museo è uno dei passi che stiamo facendo per migliorare l’accoglienza: permette di avere informazioni in più sulle opere ». E siccome così sono aumentati smartphone e tablet, gli assistenti, si spiega, trovano sempre più difficile «distinguere l’uso fotografico ». Ecco perché, pur continuando a proibire i flash e l’uso commerciale, le foto sono state permesse.
C’è però chi trova che tutto ciò sia solo un passo avanti e non un banale cedimento. Lo scrittore Sam Leith, sull’ Evening Standard, è categorico: «L’idea che il nostro incontro con un’opera d’arte in un museo sia un confronto diretto fra una coscienza riconoscente e una luminosa singolarità artistica è pura fantasia ». E oltre a ricordare che non a caso tutte quelle opere hanno anche un valore di mercato, elenca: cornice, posizione in cui il quadro è appeso, ambiente della sala, umore del visitatore in quel giorno, prezzo del biglietto, per non dire del contesto culturale in cui è nata l’opera, l’iconografia, e tutto il resto. Non contento, difende proprio il selfie: «Un’ampia parte del piacere che proviamo nel trovarci davanti a un capolavoro è proprio dovuta al fatto di essere lì». E poter poi dire: «Io ci sono stato ».
È quello che ha fatto, per sperimentare la novità, la giornalista e commentatrice del Guardian Zoe Williams, scattando nel bel mezzo della National Gallery tre selfie, uno con un ritratto di donna che suona la spinetta di Vermeer e due con autoritratti, il primo del seicentesco italiano Salvator Rosa e l’altro con un Rembrandt sessantenne. “Il selfie originale”, come lo chiama lei, che nell’esperienza ha raccolto qualche commento negativo di altri visitatori, un certo imbarazzo e una certezza: «Nessun timore, il museo non sarà travolto da una massa di gente che fa selfie».
Pubblicato il 17 Agosto 2014