L’Europa non avrà un ferragosto economico buono perché deluderanno i dati sul Pil dell’Eurozona (Uem) di oggi. È infatti (quasi) certo che crescita del Pil nel secondo trimestre del 2014 subisca una frenata sino a passare in territorio negativo. La settimana scorsa l’Italia ha registrato un calo del Pil trimestrale (congiunturale e tendenziale) che ha preoccupato anche con qualche eccesso di enfasi. Adesso il ribasso toccherà anche la Germania (e non solo per la crisi Russia-Ucraina) accentuando le preoccupazioni per la non ripresa dell’Uem. L’Italia non deve però consolarsi né porre troppa enfasi sulla nostra produzione industriale di giugno che è andata meglio di quella della Uem e della Germania.
Dell’Eurozona sono responsabili infatti tutti i 18 Paesi ed in particolare i tre maggiori (Germania, Francia e Italia) ciascuno dei quali deve contribuire a rilanciare una crescita sostenibile.
È importante che ciò avvenga con quella pari dignità da conquistare con diuturna fatica avendo però chiaro un disegno strategico. Confidiamo che anche di questo Matteo Renzi abbia trattato nei suoi recenti incontri con Mario Draghi e con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al quale certamente non sfugge anche l’importanza di avere un italiano quale Commissario europeo forte all’economia reale.
La difficile ripresa. Purtroppo il Pil del II trimestre e la produzione industriale di giugno della Uem ci dicono che potremmo andare in una quasi stagnazione con deflazione come risulta da una dinamica dei prezzi che si avvicina allo zero. Così non è in Germania ma ciò non la esime da impegni per la Uem e da una autovalutazione circa la correttezza delle sue politiche nel periodo che inizia dal 2008.
Il paradigma del rigore (fiscale) non controbilanciato dal rilancio (degli investimenti) e dal rafforzamento dell’economia reale (industria) ovvero il paradigma del rigore virtuoso che auto-genera crescita senza politiche economiche per rafforzare le infrastrutture materiali ed immateriali non regge.
Lo dimostra il confronto tra i dati della Uem (ovvero i 18 Paesi dell’euro) con quelli di 34 Paesi avanzati (ivi compresi quelli Uem) sui due quinquenni 2010-14 e 2015-19. Gli stessi corrispondono alla durata di mandato della Commissione e del Parlamento europeo ad esclusione di qualche mese del 2009 che è meglio lasciar fuori per un crollo epocale del Pil nell’aggregato dei Paesi considerati.
Nel 2010 s’ebbe la “risposta” della Uem alla crisi con politiche fiscali per riportare sotto controllo i deficit e i debiti pubblici sui Pil senza preoccuparsi del rallentamento (o caduta in vari Paesi) nella crescita. Gli effetti negativi sono evidenti perché l’aumento del Pil dei Paesi avanzati (inclusi quelli della Uem) è stata di 6 punti percentuali superiore a quella dell’Eurozona. La disoccupazione conferma il peggioramento della Uem che passa da un tasso del 10,2% (2010), al 12% (2013), all’11,9% (2014) mentre la media dei Paesi avanzati scende dall’8,3% (2010) al 7,5% (2014).
Una strategia di riforme. Dunque la Uem nella crisi ha deluso. Anche perché, malgrado le regole di bilancio rigide e irrigidite con il fiscal compact, non è riuscita a evitare un aumento del debito sul Pil di 30 punti percentuali tra il 2008 e il 2013. La concomitanza degli aumentati interessi sul debito e del calo nella crescita del Pil ma anche l’inadeguatezza degli stabilizzatori automatici e i confusi salvataggi di vario tipo ha creato lo stallo odierno fatto di frammentazione e di bassa crescita.
La Uem dovrà perciò reagire nei prossimi 5 anni sui quali le previsioni la danno in minor crescita di 4 punti percentuali rispetto ai Paesi avanzati la cui disoccupazione scenderebbe al 6,4% mentre quella dell’Eurozona rimarrebbe al 9,85%.
Tra le molte indichiamo due strategie per ridurre la frammentazione della Uem e quindi per aumentare la sua compattezza competitiva nell’economia mondiale. Una riguarda le riforme interne ai singoli Paesi, l’altra le riforme della Uem.
Le riforme strutturali nazionali. Negli anni “buoni” ,fino al 2008, molti Paesi della Uem non ha saputo fare le riforme strutturali, a cominciare dalla riduzione della spesa pubblica e della sua riallocazione da spesa corrente a investimenti anche da sostenere con una fiscalità più leggera. L’Italia è tra i Paesi inadempienti (che è ricorso all’aumento della pressione fiscalesu imprese e lavoro) contribuendo alla frammentazione della Uem. La Germania ha fatto le riforme ed è un modello da seguire malgrado nella crisi sia stata miope con vantaggi di breve andare.
Adesso i Paesi più deboli devono fare le riforme che non sono eguali per tutti ma che sono ben individuate nelle valutazioni del Semestre europeo. Bisogna però che il cronoprogramma delle riforme sia dosato alla situazione di recessione-deflazione strisciante di cui molti Paesi soffrono con alti livelli di disoccupazione. Non si può infatti esaltare e generalizzare il modello greco o spagnolo con il 25% di disoccupazione.
Il monitoraggio della Uem sulle riforme nei singoli Paesi è essenziale ed eventuali riduzioni di discrezionalità statuali (dette impropriamente cessioni di sovranità) non ledono gli interessi nazionali purché si mantengano nei limiti istituzionalmente concordati.
Le riforme strutturali dell’Eurozona. La Uem deve però riformare anche se stessa a cominciare dalla sue intricatissime regole di bilancio alle quali anche l’Fmi ha rivolto critiche. Per noi bisogna anche cambiare l’irrealizzabile obiettivo del debito pubblico sul Pil al 60%. Sarebbe ragionevole un livello del 100% che è la media tra l’attuale livello del 105% dei Paesi avanzati e il 95% della Uem. A questa convergenza graduale dovrebbero contribuire anche i Paesi che possono fare politiche espansive.
Cruciale per le politiche espansive è anche un forte rilancio degli investimenti senza i quali la crescita competitiva dell’Eurozona non ci sarà. La quota degli investimenti (pubblici, privati e in partenariato pubblico privato) dall’attuale 18% del Pil dovrebbe essere spinta verso il 23% mentre le previsioni la danno al 19% nel 2019. Anche l’Fmi suggerisce di spingere sugli investimenti transeuropei nelle infrastrutture materiali e immateriali. Quanto al finanziamento bisogna riflettere anche sull’utilizzo dei 1.000 miliardi di euro che la Bce (Tltro) si accinge a immettere da settembre e nei prossimi due anni a tassi molto bassi e con rientri entro il settembre 2018.
Una conclusione. Noi ci siamo riferiti qui all’Eurozona pur sapendo che i poteri sono della Commissione e del Parlamento europeo incardinati nella Ue a 28 Paesi. I poteri istituzionalizzati della Uem, che per ora vanno poco oltre quelli dell’Eurogruppo, vanno perciò potenziati con le cooperazioni rafforzate essendo l’Eurozona il motore della Ue.
Pubblicato il 14 Agosto 2014