Insegnare la non violenza nel mezzo di una guerra. Così a Betlemme si prepara il futuro
Tornato dalle trincee della Prima guerra mondiale, Celestin Freinet divenne socialista e dedicò ogni sforzo a costruire la pace, a partire da pratiche concrete capaci di dare dignità all’infanzia. Fu dunque dalla visione di un maestro di campagna che nacque la prima e unica Internazionale di educatori (Fimem), che ancora oggi si riunisce ogni due anni in un Paese diverso, sopravvivendo a una globalizzazione che spesso separa più che unire. A Reggio Emilia, a fine luglio, il Movimento di Cooperazione Educativa ha riunito 532 insegnanti da 38 Paesi di 4 continenti, che per dieci giorni hanno partecipato a laboratori e discusso intorno al tema del bambino e la città.
È in questa occasione che, nei giorni dell’invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano e dei missili lanciati da Hamas, incontro il biologo palestinese Abdelfattah Abusrour, iniziatore della «Beautiful Non-Violent Resistance». «C’è chi afferma che non ci può essere al tempo stesso bellezza e resistenza ma io affermo il contrario. Da 16 anni a Betlemme, nel campo di Aida, organizziamo i giovani nel Centro non-violento Aleowwad (Pioneers for life), offrendo la possibilità di fare teatro, fotografia, danza, video, per creare ponti con il resto del mondo, promuovere imprenditorialità sociale e mostrare un’altra immagine del popolo palestinese e della nostra cultura. Cerchiamo di offrire un ambiente “sicuro” per stimolare la creatività nei bambini e dare alle donne la possibilità di uscire dallo stress delle condizioni di guerra. L’80% dei palestinesi non ha mai impugnato un’arma e allora perché non puntare sulla non-violenza, nella lotta per i nostri diritti. La guerra finora non ha fatto altro che peggiorare la situazione e dunque il compito educativo principale, per noi, consiste nel separare la lotta contro l’ingiusta occupazione dei nostri territori dalla violenza, che avvelena ogni cosa, lavorando per il rispetto dei diritti umani». Il suo gruppo ha animato la manifestazione che ha fermato l’auto di Papa Francesco di fronte al muro eretto dal governo israeliano e, «quando abbiamo visto il Papa scendere e pregare vicino a quel muro, che è un monumento all’impossibilità della convivenza, abbiamo pensato che lavorare sui simboli forse può dare più risultati che impugnare un’arma».
«È difficile proporre la non-violenza a ragazzi che vedono ogni giorno i propri genitori umiliati e assistono a scene come quella di giovani soldati israeliani che costringono padre o madre a spogliarsi in pubblico a un checkpoint. Solo l’arte e la bellezza ci possono salvare dal vicolo cieco in cui siamo ingabbiati, perché ci trasportano in altri mondi ed è proprio questo di cui abbiamo estrema necessità: allargare la nostra visione delle cose». Da alcuni anni il Centro organizza tournée in giro per l’Europa, in cui le ragazze e i ragazzi, che apprendono danze e canti tradizionali negli spazi ricavati tra le strette strade di Betlemme, portano la loro arte e la loro vitalità lontano da un territorio sovrappopolato, dove «ogni simbolo rimanda a un’idea di oppressione, perché a Betlemme ormai oltre il 90% del territorio è stato occupato dai coloni». «In questi anni siamo cresciuti, ora abbiamo 19 operatori pagati oltre a 25 volontari, che vengono anche da altri Paesi a insegnarci teatro di strada, documentazione video e altri linguaggi per la nostra resistenza all’ingiustizia». Può apparire illusorio sostenere che la bellezza sia in grado di orientare in senso non-violento la resistenza, ma osservando i video con ragazzi pieni di gioia per aver fatto qualcosa per sé e non solo contro chi offende la loro dignità, si avverte che questa impresa, per certi versi temeraria, è piena di senso e prova ad aprire un varco verso un futuro diverso di convivenza.
La scuola, in luoghi d’oppressione e di guerra, spesso sembra non farcela a offrire una prospettiva capace di visioni radicalmente alternative, perché ci vuole il coraggio di rovesciare ogni cosa.
«Questo accade anche in alcune favelas del Brasile», ci dice Vilson Groh, un prete della teologia della liberazione straordinariamente attivo, che a Florianopolis, in 35 anni di lavoro, è riuscito a mettere su un’imponente rete di strutture educative per l’alternativa alla violenza, che accoglie ogni pomeriggio e fino a notte quasi 5mila giovani dai 6 ai 24 anni. «Il nostro compito principale è strappare i giovani al narcotraffico e a una cultura di morte. Un ragazzo che gira per una favela con un’arma in mano sperimenta l’onnipotenza. Noi dobbiamo raccogliere quella tensione alla sfida e convertirla in qualcosa di vitale e «ti sembrerà strano, ma il più grande sostegno in questa impresa educativa l’abbiamo trovato nell’acqua dell’oceano, che non si può domare. Se hai di fronte un’onda alta metri e stai imparando il surf, sai che se sbagli puoi annegare. Lì sperimenti i tuoi limiti e hai l’occasione di metterti in gioco lontano da uno scenario di guerra. Poi, naturalmente, organizziamo in parallelo corsi di educazione al lavoro e di formazione per l’ingresso all’Università là dove loro vivono, perché un ragazzo che ha sempre abitato in una favela non immagina neppure di avere il diritto a una borsa di studio e invece, ora, in tanti ce la fanno a mutare un destino che sembrava segnato».
Ascoltando chi osa educare in territori dove sembra non esserci alcuna speranza di cambiamento, si ha l’impressione che questa sorta di pedagogia per luoghi di guerra riesca ad andare oltre l’orizzonte di stagnazione e di morte, che imprigiona nella violenza troppi ragazzi in troppi luoghi del mondo.
Celestin Freinet, radicalmente laico come sanno esserlo i francesi, forse si stupirebbe che il suo messaggio sia stato raccolto anche da un gruppo di musulmani praticanti in Palestina e da un prete in Sud America, ma credo condividerebbe gli sforzi di chi inventa strategie completamente nuove per affrontare i danni della discriminazione che genera violenza, con la radicalità e l’audacia che lui ebbe a suo tempo. A Reggio Emilia per la Ridef sono arrivati dal Togo e dal Senegal, dal Benin e da Haiti, perché le delegazioni più numerose, che provenivano dall’Europa latina, si sono fatte carico delle spese di viaggio e di soggiorno dei colleghi dei Paesi più poveri. Questa forma di cooperazione educativa completamente autorganizzata dimostra la vitalità di una minoranza di insegnanti che si assumono in pieno la responsabilità del loro operare, oltre i confini della scuola e della nazione in cui lavorano.
da Il Sole 24 Ore