FORSE il problema non è tanto l’ennesima recessione, ma il fatto che tutto ritorni così simile a se stesso in questo Paese. Nel giugno del ‘44, già pensando al dopoguerra, Luigi Einaudi scrisse al direttore dell’ Economist una supplica agli alleati di non forzare l’Italia a diventare un’economia moderna. Non perché le riforme non fossero necessarie, spiegò, ma per non creare una reazione di rigetto in un’Italia dove il fascismo era morto, ma lo sciovinismo restava vivo e vegeto.
«I NOSTRI rappresentanti verrebbero banditi come traditori e agenti dei poteri finanziari plutocratici stranieri», scrisse Einaudi.
Questa sembra di averla già sentita, più di recente. Altrettanto familiare suona anche la previsione formulata allora dal futuro presidente e i successivi esiti. Einaudi promise agli angloamericani che gli italiani sarebbero stati felici di fare le riforme da sé, se solo fosse stata lasciata loro la sovranità (oggi diremmo: niente troika). Non successe. Lo Stato corporativo cambiò nome o bandiere ma non la sua struttura, che ancora oggi si perpetua. L’Iri sopravvisse e oggi il virus dell’invadenza della politica nelle banche e nelle imprese infuria con oltre diecimila società partecipate dallo Stato: per lo più costose per il cittadino, monopoliste e inefficienti. E la burocrazia dell’Italia democratica rimane più votata al controllo e allo scarico di responsabilità che all’efficienza e al servizio. Così l’Italia ha attraversato il dopoguerra avendo cambiato le istituzioni politiche, ma non quelle dell’economia fascista.
Avanti veloce di settant’anni ed è difficile non accorgersi di cosa sta succedendo. Puntualmente il governo di turno annuncia la ripresa, che poi non arriva. Nell’ultimo decennio il Tesoro ha sempre sbagliato per eccesso le stime di crescita dell’anno in corso. Dall’avvio dell’euro l’Italia è il solo Paese, Grecia inclusa, nel quale il reddito per abitante è calato. Negli ultimi venti anni non c’è stata quasi crescita economica, il risultato peggiore fra le 34 democrazie avanzate dell’Ocse. In questo secolo la produttività – la capacità di generare reddito in un’ora di lavoro – è rimasta ferma mentre è salita in Germania, Francia, Gran Bretegna, Stati Uniti, Spagna, Svezia e una quantità di altri concorrenti. Eurostat stima che l’export di alta tecnologia è il 6% del totale per l’Italia, ma il 16% nella media europea.
Le istituzioni economiche ereditate dal fascismo, sopravvissute con molte metamorfosi, si stanno dimostrando incompatibili con il ventunesimo secolo. Non si può più vivere di protezionismo e autarchia (oggi diremmo: tutela degli insider e «decrescita felice»). Ciò che fa vivere è la capacità di innovare e sostenere imprese pensate per stare su mercati globali, invece la struttura dell’economia italiana ha prodotto l’opposto. Il tempo medio per una causa civile o commerciale è di 2992 giorni (900 in Germania) perché gli avvocati continuano a prendere parcelle basate sulla durata di un caso, mentre i magistrati sono pochi e non vengono valutati sul loro rendimento. Normale poi che in queste condizioni gli investimenti diretti esteri in Italia fra il 2009 e il 2013 siano stati di 80 miliardi, contro i 126 della Francia, 143 della Spagna, 187 della Germania e 261 della Gran Bretagna.
Quanto alle aziende, ormai la loro dimensione media è di appena quattro addetti e solo una su cento ne ha più di 50. Gli imprenditori vengono incoraggiati a restare piccoli, con tanto di retorica sul loro eroismo, quando invece è ormai ovvio che per stare sul mercato hanno bisogno di una taglia più grande. Rafael Domenech del Bbva stima che un’azienda di 250 addetti crea in un’ora di lavoro tre volte più prodotto e più reddito (anche per gli operai) rispetto a un’azienda di soli dieci. Eppure in Italia si incentivano ancora le imprese a restare nane offrendo contratti di lavoro meno blindati solo a chi assume non oltre 15 persone: così il lavoro diventa meno efficace, i prodotti poco competitivi e vendibili solo a prezzi bassi, dunque il fatturato cala, i compensi anche, crolla la domanda interna e non basteranno certo 80 euro a rianimarla.
Quanto alle tasse e il rapporto con la burocrazia, non c’è solo un’imposizione fiscale sulle imprese che arriva al 65,8% del fatturato: il 23% in più della media europea. C’è anche l’incredibile, addirittura offensiva complessità. Confartigianato stima che fra aprile 2008 e marzo 2014 sono state introdotte in Italia 629 nuove leggi tributarie, due alla settimana negli ultimi sei anni. Per ognuna che semplificava, oltre cinque hanno introdotto una nuova complicazione. Gli adempimenti impongono quasi due mesi di lavoro di un mini-imprenditore l’anno: tutto tempo negato all’innovazione, alla cura del prodotto, ai viaggi per ricavarsi nuovi mercati esteri.
La lista delle assurdità potrebbe continuare. Ma vista così, questa non è solo una nuova recessione: la storia è piena di Paesi che a un certo punto entrano in fasi di declino di lungo periodo. L’economia argentina era davanti a Francia, Germania e Italia nel 1914, con un reddito medio per abitante fra i più alti al mondo. Un secolo dopo l’Argentina è quasi un paria internazionale, il reddito sceso al 43% dei più ricchi. Fra il 1945 e il 1976 anche la Gran Bretagna è cresciuta di meno di metà del resto d’Europa. La Germania è stata il malato d’Europa negli anni ’90 e il Giappone ha già vissuto due «decenni perduti» (crescendo il doppio dell’Italia però).
Alcuni di questi Paesi si sono ribellati alle loro stesse contraddizioni, e ne sono usciti: Gran Bretagna o Germania insegnano. Il Giappone sta lottando per scrollarsi il declino di dosso, assumendosene i rischi e la fatica. Altri infine preferiscono abbaiare ai capri espiatori, i plutocrati, George Soros, la Merkel o la Bce, e restare in trappola. L’Argentina è un monito anche per noi. Ora più che mai, dobbiamo decidere dove vogliamo andare.
Da La Repubblica
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