Asma, la migrante numero centomila. È arrivata in Sicilia su un barcone col marito, la figlia piccolissima e bimbo in grembo. Con lei gli stranieri sbarcati dall’inizio di Mare nostrum toccano la cifra simbolo dell’emergenza La storia.
Quando scende dalla passerella bianca della nave Dattilo della Guardia Costiera e si asciuga pudicamente con una mano le lacrime che le scivolano giù dagli occhi, Asma non fa neanche caso al funzionario che le mette attorno al polso un braccialetto di carta con un numero, il 255. È un numero che ne fa un simbolo di questa drammatica migrazione epocale che ha già portato in Italia 100.979 uomini, donne e bambini in fuga da guerre, povertà, violenza,
disperazione.
Asma è il migrante numero centomila salvato dagli uomini della Marina militare italiana dall’ottobre scorso, quando, dopo i due tragici naufragi di Lampedusa con centinaia di vittime, ha preso il via l’operazione Mare nostrum. Ha 23 anni e ce l’ha fatta con il bimbo che porta in grembo, con suo marito Yaman e con la piccola Tala, tre anni e mezzo, che scende prima di lei tenuta per mano da un marinaio della Dattilo tutta avvolta nel suo cappottino rosso. Già alle otto e mezza del mattino fa un caldo feroce sul molo di Pozzallo, la cittadina del ragusano che oggi fa fronte con una commovente gara di solidarietà al più grosso sbarco che si sia mai registrato: 958 persone, tra cui 145 donne e 204 minori, moltissimi dei quali non accompagnati. Il capo della Mobile di Ragusa Nino Ciavola guarda con occhio attento tutti i bambini tenuti in braccio da uomini perché spesso gli scafisti provano a farla franca cercando di spacciarsi per papà in fuga con i figli. Chi arriva porta addosso tutto quello che ha nonostante la temperatura. Anche Asma scende stretta nel suo lungo soprabito nero che non riesce a nasconderne la gravidanza. La giovane siriana, quasi un anno dopo la partenza, raggiunge il primo traguardo del suo viaggio e mette la parola fine a un incubo fatto di terrore, stenti, violenze, paura. Non sa cosa le riserverà il futuro, ma nel suo discreto inglese sussurra tra le lacrime «Thanks,
thanks, thanks Italian people», a chiunque tenda la mano a lei o alla sua bambina.
Asma è una delle venti donne incinte sbarcate e subito, insieme ai sei neonati, viene presa in consegna dalle volontarie della Croce rossa coordinate da Mirella Gridà Cucco Ganci e fatta salire sul bus che la porta all’ospedale Maggiore di Modica. Qui, dopo tutti i controlli che la tranquillizzano sullo stato di salute, racconta la sua storia. «Ho 23 anni, vengo da Erbin, periferia di Damasco. Siamo fuggiti il 27 agosto dell’anno scorso dopo l’attacco con le armi chimiche. Mio marito all’inizio non voleva: lui combatteva con i ribelli contro Assad, ma non potevamo mettere a rischio la vita di nostra figlia. Abbiamo visto morire troppi bambini in quei giorni. I nostri genitori, i nostri nonni hanno raccolto tutto quello che potevano, hanno venduto quello che sono riusciti a vendere, ci hanno messo i soldi in mano e ci hanno detto: “Andate, scappate almeno voi che siete giovani”».
Piange Asma, mentre le infermiere del reparto di ginecologia le tengono la mano e le fanno una carezza. Nel pacco di regali portato dai volontari per i piccoli ricoverati e per le giovani mamme in attesa c’è qualcosa anche per lei, un bavaglino per il bimbo o la bimba che dovrebbe nascere entro la fine dell’anno. «Non so quando, non so neanche se è maschio o femmina, non ho potuto fare nessun controllo. Ho saputo di essere rimasta incinta quando eravamo già in Libia in attesa di poterci imbarcare e non ho fatto altro che pregare, pregare, di riuscire a fare nascere questo bambino e di portare in salvo Tala. È stata bravissima, io e mio marito l’abbiamo portata in braccio per giorni nel deserto prima di poter salire sulla macchina che ci ha condotti in Li-
bano».
A Marmeltein, per mettere da parte i dollari necessari a pagare il resto del viaggio, Asma ha lavorato in un caffè malfamato per dieci ore al giorno a 150 dollari al mese. Nel frattempo Yaman cercava il contatto giusto per ripartire. «Quando siamo arrivati in Libia ci hanno portato in una specie di fattoria dove ci saranno state almeno 300 persone in condizioni bestiali: per quindici giorni siamo rimasti chiusi lì dentro. Ogni tanto entravano uomini armati di pistole e mitra e picchiavano a sangue qualcuno a caso. Le donne sole le portavano fuori e le violentavano, alcune le ho viste rientrare sanguinanti. Poi è venuta la sera della partenza, a noi hanno dato una bottiglia d’acqua e un cartone di latte per la bambina. Avevamo pagato mille euro a testa, ci avevano assicurato che saremmo stati non più di settanta, ma su quel barcone ci hanno fatto salire in 350. Siamo rimasti in acqua tre giorni, poi ci hanno salvato». Gli occhi verdi di Asma luccicano sotto il foulard nero con motivi turchesi che le avvolge il capo. Tutto quello che ha è nella borsa nera che tiene stretta accanto a sé: i documenti, due bracciali d’oro, un po’ di dollari, un portafotografie con le immagini dei suoi cari. «Il mio sogno era fare l’avvocato — dice ritrovando per un attimo il sorriso — mi ero iscritta in legge, studiavo anche mentre ero incinta e quando è nata Tala. Yaman era fotografo di cerimonie, avevamo la nostra casetta, vivevamo dignitosamente. Poi lui ha cominciato a dare una mano ai ribelli ed è finito nella lista nera della polizia di Assad, un giorno è stato colpito da un proiettile a una gamba. Ma se non fossimo stati costretti non avremmo lasciato la Siria. Noi amiamo il nostro Paese e io spero ancora un giorno di poterci tornare e farci crescere i miei figli. Adesso, però, il nostro futuro è in Europa. Non abbiamo nessuno, qui. Vorrei andare a Roma. Si può?».
Da La Repubblica