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"La guerra invincibile", di Adriano Sofri

SE LA notizia arrivata alla fine di uno shabbath trepidante non fosse travolta subito, com’è successo finora a ogni annuncio di tregua, non ci sarebbe che ringraziarne il cielo.
CIASCUNO il proprio. Niente è più urgente che interrompere e smettere un massacro insensato, che del resto ha già ottenuto di battere il record di morti ammazzati delle biennali guerre di Gaza, e la spirale di reciproco odio. Le “guerre” — nome usurpato, se non fosse che bisogna almeno esigere che sia rispettato il diritto di guerra — divampano all’improvviso. Ai morti ammazzati e ai feriti le tregue stentate mettono una pausa, all’odio che ogni volta si esacerba occorre un tempo lentissimo, ammesso che il tempo lo lenisca e non lo fissi.
Netanyahu farà forse la sola cosa che possa ridurgli i danni, nel vicolo cieco in cui si è voluto e si è fatto cacciare. Quella di Gaza non è una “guerra” in cui si possa vincere. Ogni giorno che passa si perde la faccia agli occhi del mondo. Si logora oltre ogni precedente il rapporto con l’alleato americano. Si regala fiato a rivali interni che giocano a un rincaro provocatorio. Si moltiplica il rischio, tremendo per Israele, di vedere qualcuno dei propri militari o dei propri cittadini sequestrato da Hamas o dalle bande concorrenti. L’unico terreno sul quale si vince di gran lunga è il totale delle vittime palestinesi: la più ingannevole delle vittorie, oltre che la più vergognosa. E non la si può rivendicare, al contrario bisogna presentarla come il risultato non voluto di trappole nemiche o errori propri o incidenti del mestiere, benché a volte sia difficile negarne la consapevolezza, se non l’intenzione: come nell’attacco all’ospedale al-Wafa, o alla scuola dell’Unrwa, denunciato con veemenza dal direttore dell’agenzia dell’Onu. «Avevamo comunicato 17 volte le coordinate della nostra posizione».
Se avesse accettato il negoziato, in Egitto o altrove, Netanyahu avrebbe in questo momento ammesso quello che è sotto gli occhi: di aver perduto politicamente una partita che non può avere una vittoria militare, e che gli sta scavando il terreno sotto i piedi. Probabilmente presa, benché non dichiarata, la decisione del ritiro unilaterale, che pochi fautori del cessate-il-fuoco avrebbero osato sperare (e pochi fautori dell’oltranza temere), una volta perseguita apparirà come la più conveniente a limitare i danni della conduzione di Netanyahu. Il quale aveva un argomento da esibire: i tunnel.
È un argomento che ha preso via via più importanza presso gli israeliani, confortati dal successo della protezione tecnologica, l’Iron Dome, contro il lancio di razzi, che peraltro devono scarseggiare ormai. Il ricorso di Hamas ai tunnel era antico e noto, per contrabbandare armi e mercanzie dalla frontiera egiziana o per procurarsi rifugi e depositi. Erano noti anche i tunnel “offensivi”, scavati per sbucare in territorio israeliano e colpire o, peggio, rapire. Per gli abitanti israeliani lungo la frontiera erano da tempo un incubo: sentivano scavarsi sotto le case, raccontano, e chiamavano i militari, che non sapevano attribuire i rumori se non alle tubature. I tunnel hanno soppiantato per intero il lancio di razzi nell’immaginazione e nella propaganda israeliana, e hanno davvero segnato alcuni successi micidiali delle incursioni dei miliziani delle Brigate Ezzedin al-Qassam. Inaugurando una decisione “unilaterale”, Netanyahu può sostenere che nessuno avrebbe potuto forzare Israele alla ritirata, e che Israele non ha le mani legate da alcuna condizione di tregua o di trattativa; e vantare la distruzione della rete dei tunnel. La quale, a quanto pare, è tutt’altro che completata, e del resto chi ha scavato saprà ricominciare a scavare.
Le cosiddette guerre di Gaza finora a niente sono servite, se non a lutti rabbia e odio; hanno finito, sinora, col far ritornare ogni volta le cose al punto di partenza, e con l’eludere la questione cruciale dello stato palestinese. Che cosa si può sperare? La prima speranza, minima e decisiva, è che il ritiro avvenga, e che nessuna mossa, da qualunque parte, basti a farlo rinnegare e a riscatenare il terrore. La seconda speranza è che qualcuno abbia voglia di mettere a frutto la lezione e di ribellarsi alla coazione a ripetere. Hamas era sgonfia ed esce con un prestigio rinverdito fra i palestinesi della Striscia e di Cisgiordania, e tuttavia con un isolamento internazionale evidente, almeno nel breve periodo, e divisioni intestine e concorrenze minacciose.
Gli osservatori lontani, appassionati o pigri, se ne stanno attaccati all’alternativa fra la prospettiva di uno Stato unico per israeliani ebrei e palestinesi, o dei due Stati per i due popoli. Nei fatti, c’è una gamma esasperante di varianti. La Striscia sigillata e senza comunicazione con la Cisgiordania è stata per i governanti israeliani un modo per rinviare alle calende greche il confronto sullo Stato palestinese, tenendone in una semivita — o in una semimorte — due caricature, a Ramallah e a Gaza. A sua volta, Hamas si è tenuto stretto il feudo di Gaza che solo l’insipienza e la corruzione di Fatah le aveva consegnato, immaginandosi come un’appendice dell’Iran o dei Fratelli egiziani, e del loro radioso futuro. Intanto, anche in Israele, voci sincere o narcisistiche ricantano la bella canzone dello Stato unico e non confessionale, cui si oppongono, oltre alle bandiere rabbiose, i numeri ferrei della demografia. Una via diversa da quella dello slogan trito dei “due popoli due Stati” non c’è: ma lo Stato palestinese non può che comprendere Cisgiordania e Gaza. Se le reciproche frontiere, fisiche e di ogni altro genere, si aprissero — se Israele accettasse di aprirle — non sarebbe Hamas, o i jihadisti che lo incalzano, a guidare la marcia. Se restassero chiuse, le talpe continuerebbero a scavare, e le “guerre di Gaza” riceverebbero una regolamentazione ufficiale: gironi eliminatori e le finali ogni due anni. Vince chi fa più morti. Perdono tutti.

da La Repubblica