Le proposte di Franceschini individuano sei linee di tendenza che disegnano una strategia da verificare sul campo, evitando sia i catastrofismi che gli eccessivi entusiasmi
Il ministro Franceschini propone di riformare il ministero: 46 pagine che vanno conosciute prima che appoggiarle, integrarle o demolirle. Il ministro deve aver cura del “mezzo” – il ministero – per attuare il “fine” – la promozione della cultura. Deve guardare strabicamente nelle due direzioni, difendendo prima di tutto l’interesse generale rispetto a quello pur lecito degli addetti. Sono fiorite fin’ora poche idee e tanti pregiudizi, tra chi da una parte vuole lasciare tutto come è stato e chi – ravvisando nelle soprintendenze addirittura un “nemico” al quale spuntare le armi – vorrebbe sottrarre alla tutela la “lontananza” che la fa vivere, pericolosamente avvicinandola alle amministrazioni locali, che non hanno dato purtroppo buona prova: nessun piano paesaggistico regionale approvato e territori divorati da cemento, incuria, boscaglia. Stare tra l’incudine e il martello è posizione scomoda, da sopportare.
Oltre al ripristino del Consiglio superiore e dei Comitati tecnico-scientifici, cade l’occhio su alcune direzioni generali: per l’«Archeologia», le «Belle Arti e il Paesaggio», i «Musei e i luoghi culturali statali», il «Turismo» e l’«Educazione e la Ricerca». E cade anche su alcuni istituti centrali nuovi, dotati di speciale autonomia: l’area archeologica di Roma, Pompei con Ercolano e Stabia e 19 altri grandi musei e siti. Tali istituti possono esser diretti anche da «persone di comprovata qualità professionale». Si hanno infine i Segretariati regionali, due tipi di Soprintendenze, i Poli museali regionali, i Musei e le Commissioni regionali.
Risultano sei linee principali di tendenza. La prima riguarda una ricomposizione parziale dei tre tipi di soprintendenze («Archeologia», «Gallerie» e «Monumenti/Paesaggio»), un tempo unificate soltanto al vertice. Permane la divisione cronologico/metodologica tra l’«Archeologia» e il resto. Vengono invece unificate nelle «Belle arti e il Paesaggio» le soprintendenze già alle «Gallerie» e quelle ai «Monumenti/Paesaggio». Le divisioni amministrative non sono leggi di natura e possono essere modificate, ma alla condizione che nessuna competenza possa sopraffare l’altra (il fondato timore è che gli architetti finiscano per dominare gli storici dell’arte, il che non deve accadere). È possibile che si arrivi un giorno addirittura alla soprintendenza “unica”, con dentro anche la competenza archeologica. Infatti il metodo stratigrafico è essenziale negli scavi ma anche nelle analisi dei monumenti; la conoscenza dell’architettura serve e manca all’archeologo; le opere nei musei si trovavano nei monumenti e gli apparati decorativi fissi ai monumenti aderiscono ancora; l’arte antica è legata a quelle delle età successive… Salvaguardare le competenze combinandole in un lavoro collegiale a livello regionale, al servizio del patrimonio e del paesaggio olisticamente intesi è forse un’assurdità culturale?
La seconda linea di tendenza sta in una distinzione tra la funzione della tutela (propria delle soprintendenze) e quella della valorizzazione (propria dei musei e dei luoghi culturali), al fine di meglio attuarle più a fondo entrambe; infatti è diffusa una idiosincrasia circa il “dare valore”, che sa di stantio. Per orientarsi sulla questione, basta l’articolo 9 della Costituzione, il cui primo comma riguarda la «promozione della cultura» e il secondo, la «tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico». Al primo posto sta dunque la promozione culturale, equivalente alla valorizzazione, che è il fine supremo perché riguarda gli umani, mentre al secondo posto è la tutela, che è il mezzo essenziale alla promozione, riguardante il paesaggio, i monumenti e le opere (se l’opera si perde cade anche la relazione con le persone). L’unità fra i due commi sta nel fatto che la cultura deve promuovere un rapporto creativo, formativo e di godimento tra le persone e le cose speciali, del passato e attuali.
Questo legittima, anche in linea di principio, la distinzione tra le funzioni di valorizzazione e di tutela, purché entrambe rivolte a una stessa missione culturale. Essenziale alla promozione è il ricollegare le opere nei musei ai loro contesti di provenienza, il che si ottiene, non automaticamente grazie a un unico responsabile – sopraffatto magari dalla tutela e con poca inclinazione per la promozione –, ma tramite un dedicarsi competente alla promozione stessa da parte di un responsabile, che ami i visitatori e non li consideri un fastidio. Rimandare alle appartenenze architettoniche è il modo migliore perché i visitatori tornino al territorio per riscoprirle. In questa prospettiva 21 musei e monumenti di massima importanza divengono Istituti centrali autonomi.
Si può discutere sulla singole scelte, ma l’idea di far spiccare una corona di eccellenze da gestire con grande competenza e altrettanta efficacia può avere un senso, purché non si rompa la solidarietà, anche economica, che musei e siti privilegiati devono nutrire nei riguardi della rete meno fortunata, altrimenti il tutto si divide tra poche brioches e molte briciole; e purché si faccia ancor meglio sistema, anche per alleggerire i grandi luoghi dai troppi turisti, catturandoli appunto nella rete. Qui dei miglioramenti sono auspicabili.
La quarta linea di tendenza riguarda l’educazione e la ricerca, che vanno ricomposte con la tutela e la valorizzazione. Ho lanciato anni fa l’idea dei “policlinici” per i beni culturali. Se questo fosse l’esito della riforma, si avrebbe per la prima volta una collaborazione organica fra i due ministeri competenti (anche a livello di banche dati); si andrebbe verso una professionalizzazione delle competenze (disastrosa sarebbe una impostazione ideologica). Avendo formato generazioni di archeologi sul campo, so di cosa parlo. La formazione deve riguardare finalmente sia la competenza “verticale” cioè specialistico/amministrativa, sia quella “orizzontale”, cioè organizzativo/gestionale. Esiste infatti una seconda idiosincrasia, quella contro i manager: eppure ogni Giorgio Strehler ha bisogno del suo Paolo Grassi (esterno o interno a se stesso).
La quinta linea di tendenza sta nell’eliminare la doppia gerarchia che ha inceppato il ministero, quando alle Direzioni generali si sono affiancate, alla pari, le Direzioni regionali, che hanno tolto forza alle soprintendenze. Le Direzioni regionali vengono ora sostituite dalle Segreterie regionali, aventi compiti di raccordo con le Regioni e funzioni di stazione appaltante, e così le Soprintendenze riacquistano autorità. La decisione creerà non pochi problemi, da risolvere con molta attenzione. La sesta linea di tendenza riguarda le funzioni delle Commissioni regionali, organi interni al ministero e pertanto competenti, cui sono affidati tra l’altro i ricorsi. I Comuni si arrabbiano sovente con le soprintendenze per pareri giudicati carabiniereschi, arbitrariamente soggettivi. I pareri dovrebbero essere invece trasparenti e ben motivati in base a linee guida. Il ricorso interno è già esistito: veniva giudicato dalla Direzione generale competente e dai Comitati tecnico-scientifici. Poi è stato abolito, per cui è giusto restituirlo. Dubito però che le Commissioni regionali, benché competenti, siano la sede adatta per tali riesami: serve invece un livello superiore e centrale rispetto a quello che ha emesso la sentenza prima (come che sia, la scelta proposta rafforza e non indebolisce i soprintendenti).
La riforma Franceschini risponde per la prima volta a una visione – ciò va riconosciuto –, per cui merita un sì, ma a una condizione. Che il tutto venga sperimentato entro un certo tempo, onde poter apportare le necessarie modifiche, emerse nel fare concreto più che nell’astratto disputare. Ascoltare tutti si deve, apportare miglioramenti fino all’ultimo è consigliabile, ma poi la politica deve decidere, altrimenti rinuncia al compito di servire, non corpi ed élites, ma l’interesse di tutti in una società che non è più quella di Bottai. La verità riguardo all’interesse generale nessuno l’ha in tasca tutta, per cui invece di indignarsi sarebbe meglio dialogare e invece di pretendere bisognerebbe convincere. Spetta alla politica proporre un primo lembo di verità da cui partire, per arrivare, tra tentativi ed errori, alla soluzione la meno imperfetta possibile (cattive nozze però coi fichi secchi).
da Il Sole 24 Ore