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"Per salvare il nostro patrimonio serve un’alleanza con i cittadini", di Daniele Manacorda

Al grido di “dobbiamo salvare le soprintendenze” anche un intellettuale di rara intelligenza come Carlo Ginzburg paventa nel suo articolo apparso su Repubblica il 29 luglio il ridimensionamento delle loro competenze con i conseguenti danni al nostro patrimonio e al paesaggio. Il decreto Franceschini — di cui Ginzburg parla per sentito dire — attribuirebbe a persone «prive di conoscenze specifiche » scelte importanti, che decideranno nientemeno che «della sopravvivenza di opere, di edifici, di equilibri paesaggistici fragilissimi». Il decreto in realtà dice tutt’altro, attribuendo compiti di coordinamento a commissioni regionali per il patrimonio culturale composte dagli stessi
soprintendenti.
Siamo come paralizzati da conservatorismi non più giustificabili da parte di una fetta di classe dirigente, anche colta ma elitaria, che ha paura di cimentarsi con le sfide affascinanti che ci propone
l’economia della conoscenza. L’articolo 9 della Costituzione parla infatti di Repubblica e non di Stato, e parla di «promozione della cultura», cioè di valorizzazione: una parola demonizzata da chi la traduce in monetizzazione.
Le radici di molti dei problemi attuali stanno nella stagione laica della demanializzazione dei beni artistici e del processo di affrancamento e civilizzazione portato avanti dalla borghesia italiana del tardo Ottocento. La tutela legale, fatta di divieti e sanzioni, con tutte le sue benemerenze storiche, prese allora il posto di quella che viene ritenuta una sorta di spontanea conservazione sociale.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, anche nel rapporto beni culturali/cittadinanza. Già quarant’anni fa uno storico dell’arte come Andrea Emiliani denunciava il fossato che la cultura ufficiale e l’amministrazione del settore avevano scavato tra i beni culturali e il comportamento della società e additava nel 1923 l’anno in cui, con la definizione della figura del soprintendente, il patrimonio fu «definitivamente sottratto agli italiani». Vero? Falso? Quanto meno è legittimo discuterne, al di fuori dei corporativismi fortissimi che si oppongono, dentro e fuori dell’amministrazione, a tutto ciò che sa di innovazione in questo settore.
Nelle democrazie di massa il potere decisionale lo esercitano anche quelle maggioranze che sono state escluse dalla percezione del valore dei beni culturali, chiusa in una ristretta cerchia di addetti ai lavori. E infatti, se si parla di «restituzione» dell’Italia agli italiani dobbiamo pur domandarci chi gliel’ha tolta! L’amministrazione pubblica della tutela richiede una riforma radicale, che è d’ordine culturale prima ancora che politico e amministrativo, per metterla al passo con la società del XXI secolo. Un nuovo «sistema del servizio di tutela » richiede la partecipazione di più attori e richiede un ribaltamento di concezioni nel rapporto fra Pubblica amministrazione e cittadinanza.
Una tutela contestuale, intesa come sistema inclusivo, servizio pubblico, luogo della ricerca e della formazione condivise, comunicazione e democratizzazione della cultura, superamento di una
concezione elitaria e gelosa del patrimonio, richiede la chiamata a raccolta di tutte le energie positive del paese, con l’obiettivo di creare una rete diffusa di gestione socialmente allargata del patrimonio.
La riforma Franceschini non è la riforma che vorrei (e temo che sia in alcuni suoi aspetti farraginosa), ma va nella direzione del cambiamento. L’amministrazione pubblica deve smetterla di difendere l’Italia dagli italiani. Corrotti e corruttori, ignoranti devastatori del patrimonio ci sono sempre stati. Ma c’è un’enorme fetta di Paese pronta a difendere con i denti il futuro del patrimonio, sol che le si faccia intendere che si è capita la lezione: che l’Italia è loro. Con loro occorre allearsi. Stato, regioni, comuni, università, associazionismo culturale, singoli cittadini per il bene comune sanno di avere di fronte due avversari agguerriti: i marioli di sempre e la conservazione culturale scontenta del presente, ma paurosa del futuro. ( L’autore è docente ordinario
di Metodologia e tecnica della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre)

La Repubblica 01.08.14

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