Per fortuna l’equivoco si è chiarito. Ieri per un attimo è sembrato che il presidente Grasso avesse adombrato l’intervento della polizia per sedare i tumulti. Certo, l’istituto sta decidendo la propria semi-soppressione, ma la forza pubblica in un’aula parlamentare non sarebbe il modo migliore per accelerare la riforma. Sarebbe, non c’è dubbio, un precedente nella storia delle democrazie occidentali. Finora esiste solo il caso del colonnello Tejero in Spagna, ma quello era un tentativo di colpo di Stato da parte della Guardia Civile. A Palazzo Madama invece non c’è pericolo di “golpe”, nonostante il parere di Beppe Grillo. E non c’è nemmeno quella «deriva autoritaria» che tanto irrita il premier Renzi quando gli viene rinfacciata nel fuoco delle polemiche.
A Roma c’è solo una gran confusione. Il modo peggiore di cambiare la Costituzione a opera degli stessi che fino a tre anni fa, quando ancora governava Berlusconi, la definivano «la più bella del mondo». Certo, a questo punto bisogna augurarsi che si arrivi al traguardo senza ulteriori lacerazioni. In fondo, «i tacchini stanno anticipando il Natale»: come dice Renzi con ironia un po’ pesante alludendo ai senatori che devono auto-abrogarsi. La citazione è presa da Winston Churchill e chissà se il presidente del Consiglio è al corrente del fatto che non portò fortuna all’illustre primo ministro britannico: il laburista Attlee, a cui era riferita, vinse le elezioni anticipate contro tutti i pronostici. Peraltro l’asso nella manica di Renzi consiste proprio nella mancanza di un competitore politico o elettorale. Se così non fosse, se esistesse un avversario credibile, la situazione per lui sarebbe più complicata di quello che è.
Non a caso il ministro dell’Economia Padoan dice che in Italia e in Europa «le previsioni sulla condizione economica sono meno favorevoli rispetto all’inizio dell’anno», per cui serve «ancora di più uno sforzo per sostenere la crescita». Parole severe, al limite drammatiche, specie laddove Padoan accenna a conseguenze «sulle finanze pubbliche». Questa è la cornice all’interno della quale si discute, fra urla e strepiti, la riforma del Senato, fiore all’occhiello del riformismo renziano.
Difficile non vedere il divario fra il caotico dibattito di Palazzo Madama e la realtà di un paese in piena stagnazione economica. In settembre, una volta approvata finalmente la riforma (ma sarà solo il primo di quattro passaggi parlamentari), Renzi dovrà applcare il suo ottimismo dinamico ai problemi indicati da Padoan. Lo stesso caso Cottarelli rappresenta un indizio indicativo della distanza fra le parole e i fatti. Il premier lo ha liquidato con una battuta («la “spending review” la facciamo anche senza di lui»), quando invece il punto è chiaro: i tagli alla spesa non sono una questione tecnica, ma esclusivamente politica.
Cottarelli o chi per lui può preparare i “dossier” che vuole, ma senza una precisa volontà politica del governo e del Parlamento i tagli non si faranno. Anzi, la spesa aumenterà come sta in effetti aumentando; e nessuno ha potuto smentire su questo punto la denuncia dell’alto commissario ormai delegittimato e messo nella condizione di lasciare presto o tardi il suo incarico. È un episodio che passa persino in secondo piano rispetto alle immagini delle risse quotidiane e alla notizia che la maggioranza è stata battuta su un emendamento minore del ddl Boschi. Viceversa in Europa le priorità sono ribaltate: i conti pubblici in Italia suscitano più interesse della trasformazione del Senato. E si capisce, visto che la diffidenza nei nostri confronti riaffiora come un fiume carsico. Lo dimostra il recente editoriale della «Welt».
Il Sole 24 Ore 01.08.14