ORMAI sembra quasi un luogo comune dire che, di fronte all’eterno massacro che si consuma in Medio Oriente, l’Europa è assente. Ma non è un luogo comune.
UN dato di fatto che dovrebbe pesare dolorosamente sulla coscienza di mezzo miliardo di cittadini europei incapaci di fermare la carneficina e anche solo di tentare di farlo. E dovrebbe spingerci a chiederci il perché di questa nostra impotenza che sconfina in una tragica ignavia. Mentre a Gaza la gente muore nelle scuole, nei mercati, negli ospedali bombardati, stritolata tra due poteri che sembrano aver perso di vista il più elementare senso di umanità, l’Europa se ne è andata in vacanza rinviando al 30 di agosto la scelta dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue. Non sappiamo se la titolare della poltrona tuttora in carica, lady Ashton, sia andata in vacanza pure lei. Di certo, se è al lavoro, non se ne vede traccia. Né si vede traccia di Tony Blair, inviato speciale per il Medio Oriente del Quartetto composto da Russia, Stati Uniti, Onu e, appunto, Unione Europea. Né, in questo silenzio assordante, si vede traccia di una iniziativa della presidenza italiana dell’Ue, che forse potrebbe supplire, almeno con un gesto, alle latitanze altrui, come fece il presidente francese Sarkozy ai tempi della guerra in Georgia. È vero che la creazione di una politica estera comune è forse la più appariscente tra le molte opere incompiute che costellano la costruzione europea, nonostante i titoli altisonanti che sono attribuiti al rappresentante di una diplomazia Ue che non esiste ma che conta migliaia di funzionari e costa ai contribuenti europei un fiume di denaro. Ed è anche vero che persino un’autentica grande potenza globale come gli Stati Uniti, più forte, efficiente e determinata dell’Europa, non è mai riuscita a risolvere la crisi mediorientale. Ma almeno Washington ci prova, sia pure con i propri criteri e le proprie priorità. E gli sforzi, i successi o i fallimenti del presidente americano in questa impresa vengono misurati dalla sua opinione pubblica e pesano sul risultato delle elezioni.
In Europa, che per motivi storici e geografici dovrebbe essere interpellata dalla tragedia mediorientale in modo molto più diretto, non succede nulla di tutto questo. Le innumerevoli risoluzioni votate dal Parlamento europeo restano appese nel vuoto. E ogni volta che il massacro ricomincia, i governi si presentano all’appuntamento in ordine sparso, ma tutti pronti a brandire il diritto di veto per bloccare qualsiasi presa di posizione che non sia talmente generica da risultare anodina e totalmente inefficace. E tutto questo lo fanno senza dover rendere conto alle proprie opinioni pubbliche della loro impotenza collettiva, che è comunque la somma di ventotto impotenze nazionali. Eppure, se solo sapesse cosa dire, se solo avesse il coraggio di sporcarsi le mani e di guardare i torti e le ragioni delle parti in causa, l’Europa, che è il principale partner commerciale di Israele e il principale donatore di aiuti ai palestinesi, avrebbe la possibilità di farsi sentire.
Invece tace. Perché questo è il paradosso della mai nata politica estera europea. Oggi, di fronte a qualsiasi crisi internazionale, dall’Ucraina a Gaza, dalla Libia alla Siria, nessun singolo Paese dell’Ue ha alcun potere di intervento, né in campo economico né in campo militare. Eppure ogni Paese conserva un potere enorme, di cui spesso fa un uso indiscriminato e irresponsabile: il potere di veto, la capacità di bloccare, con il solo inarcamento del ciglio di un ministro, ogni azione comune dell’Europa. La prassi dell’unanimità in politica estera è talmente radicata che questo potere di veto non viene neppure esercitato in modo esplicito. Basta sapere che il tal governo è potenzialmente contrario a qualsiasi sanzione contro Israele, o che il tal altro si oppone ad un possibile taglio ai finanziamenti per i palestinesi, che la questione non viene neppure posta, né messa ai voti. E così i titolari del veto non ne devono rendere conto né all’opinione pubblica europea e al suo Parlamento e neppure alle loro opinioni pubbliche nazionali e ai Parlamenti nazionali. Che in tal modo evitano di interrogarsi su scelte che hanno gravi implicazioni etiche prima ancora che politiche.
Una simile situazione, è chiaro, non può essere cambiata dall’oggi all’indomani. Ma sarebbe bello che il governo italiano, che dice di volere «un’Europa diversa» e che pure ambisce alla poltrona, ora puramente simbolica, di ministro degli esteri dell’Unione europea, almeno ponesse il problema e costringesse le altre capitali se non altro a guardarsi in faccia. I morti bambini di Gaza pesano sulla coscienza di tutti: di chi mette i veti e di chi se li lascia mettere, di chi non fa nulla e di chi lascia che non si faccia nulla. Di chi rinvia le nomine europee e di chi subisce questi rinvii, magari nella speranza di guadagnare una poltrona che, comunque, resta per ora vuota di potere e anche di significato.
da La Repubblica