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"Quando deve andare in pensione un professore?", di Simonetta Fiori

Notti insonni per molti professori universitari. La riforma della Pubblica amministrazione manda in pensione un cospicuo numero di docenti oltre i 65 anni di età. È vero che devono avere maturato 42 anni sei mesi e un giorno di contributi (gli uomini) e 41 anni sei mesi e un giorno di contributi (le donne), una cifra che può apparire irraggiungibile. In realtà per molti di coloro che sono entrati nelle università negli anni Ottanta il riscatto della laurea era un passaggio naturale. Così si calcola che nel giro di un paio d’anni l’università rischi di perdere un paio di migliaia di professori. E certo non tra i peggiori. Con gravi conseguenze per i dipartimenti delle facoltà umanistiche e i reparti di medicina.
Gli accademici protestano, con ragioni anche condivisibili. Mentre le università europee allungano i tempi della pensione, in conseguenza dell’aumento delle aspettative di vita, in Italia si anticipa la rottamazione. Negli Stati Uniti era stato Reagan a eliminare il mandatory retirement nelle università — fissato intorno ai 70 anni — e oggi si può andare in pensione quando si vuole (ma con verifiche molto rigorose). Da noi la legge stabiliva che i professori potevano restare in cattedra fino ai 70 anni. La nuova norma viene giudicata da molti «un errore» sotto il profilo culturale ed economico. Un appello firmato da alcuni filosofi – tra i quali Roberto Esposito, Michele Ciliberto, Maurizio Ferraris,
Remo Bodei – denuncia la «dispersione di competenze e saperi di cui invece università e sanità hanno vitale bisogno». Viene messo in evidenza anche quello che può essere considerato un vulnus per la Costituzione: ossia la discrezionalità di ogni singola università nel decidere se un docente deve o non deve andare in pensione («un elemento insostenibile di condizionamento e ricattabilità dei pensionabili»). Alle proteste degli accademici si affianca quella di Paola Binetti, deputata dell’Udc: «Mandare in pensione a 65 anni tutto il personale medico universitario non è frutto di una buona logica».
Il governo argomenta la “rottamazione” dei più vecchi con la necessità di far posto ai più giovani.
«Nessun problema di lesa maestà», dice Marianna Madia, la ministra artefice della riforma. «Restano salve le eccellenze», che però saranno giudicate tali da ogni singolo ente. Il quale valuterà se non sia opportuno dare nuove possibilità ai più giovani. I professori dissenzienti obiettano che non è così che si garantisce il lavoro dei nuovi ricercatori (i docenti pensionati non vengono sostituiti).
Da un parte gli argomenti populistici dei governanti — giovani versus vecchi, liquidati in massa dalla Madia come “cattivi maestri” —, dall’altra il sospetto d’una difesa corporativa che s’allunga sul ceto accademico: il terreno appare molto scivoloso. Ecco qui di seguito due pareri discordanti.

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“Dare false speranze ai giovani è una forma di populismo”

«ARISTOTELE sosteneva che il massimo dell’energia intellettuale si esprime a 49 anni. E ora vogliono decapitare un’intera classe accademica di poco più anziana?». Remo Bodei appare tra i firmatari di un appello contro la nuova norma che anticipa il pensionamento degli universitari.
Perché è contrario?
«Mi appare gravissima la dispersione di competenze: non mi riferisco solo alle nostre facoltà umanistiche, ma anche a quelle scientifiche e soprattutto mediche. Una successione che non è stata minimamente predisposta».
Si faciliterebbe in questo modo l’ingresso dei più giovani.
«Una falsa illusione. Il turnover è bloccato da tempo. Molti miei colleghi andati in pensione non sono stati ancora sostituiti».
Però esiste il problema di ricercatori bravissimi costretti a emigrare.
«Un problema molto serio, che non si risolve certo in questo modo improvvisato. L’università italiana ha bisogno di più docenti, non di meno professori. E si poteva pensare anche di abbassare l’età pensionabile, ma dando il tempo di riorganizzare reparti e dipartimenti».
La nuova norma sembra contraddire la logica del legame tra pensionamento ed evoluzione demografica.
«E infatti altrove in Europa, in conseguenza dell’aumento delle aspettative di vita, è aumentata l’età pensionabile dei professori. In America, dove insegno da molti anni, non c’è limite di età».
In Italia potrebbe essere pericoloso…
«Sono d’accordo: settanta anni mi sembra l’età giusta. Ma ora la vogliono abbassare di cinque anni».
Per lo Stato ci sarebbe un doppio peso economico: i pensionati e i nuovi assunti.
«Certo. Anche in termini economici non mi sembra un buon affare. Ma non facciamoci troppe illusioni sui nuovi assunti: quella di Renzi mi sembra una proposta populistica. Un populismo del terzo tipo: il migliore, ma pur sempre populismo».
Quali sono gli altri due?
«Il populismo illusionistico di Berlusconi — ghe pensi mi, un milione di posti di lavoro — e quello gridato, carico di risentimento contro la casta, che propone Grillo. Ma è una forma di populismo anche dare speranze senza poterle realizzare: non si investe abbastanza nel campo della formazione e della ricerca ».
Non crede però che da parte dei professori ci sia il rischio di una difesa corporativa? Non sono gli unici ad andare in pensione a 65 anni. Nell’editoria succede molto prima.
«Certo, il rischio esiste. Io però resto fuori dal “pelago”: sono professore emerito a Pisa e insegno nell’Università della California».
Lei no, non è sospettabile di corporativismo. Ma i professori interessati?
«Le rispondo così: il corporativismo verrebbe meno se davvero fosse garantito un ricambio di qualità. Posso usare estremizzando una metafora militare? È come se lo stato maggiore di un esercito venisse decapitato e la guida delle operazioni militari passasse
a capitani e sottotenenti. Il caos».
Magari qualche capitano messo alla prova si rivela migliore di un generale.
«Il problema dei talenti espatriati è molto grave. Ma – esagerando di nuovo – non si può fare come accadeva a Roma nel 390 a. C. sotto l’assedio dei Galli. I vecchi venivano buttati nel Tevere per permettere ai più giovani di nutrirsi. Una soluzione per molti versi efficace, ma temo non risolutiva».
( s. fio.)

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“Il nostro è un corpo malato ci vogliono energie nuove” di RAFFAELLA DE SANTIS
QUALCHE anno fa ha fatto parlare di sé con I baroni (Feltrinelli), libro dal titolo esplicito nel quale raccontava in forma narrativa il suo calvario nell’accademia italiana e la sua fuga da Palermo a Oxford, dove insegna dal 2007 Letterature comparate e Letteratura del Rinascimento. Oggi Nicola Gardini, professore cinquantenne, osserva con distacco partecipato la situazione italiana, ha un saggio in uscita a settembre con Einaudi intitolato Lacuna, in cui non parla di politiche universitarie ma di procedimenti narrativi, e si augura che la riforma dell’età pensionabile sia il primo passo per un ricambio generazionale dei professori nei nostri atenei.
Professore, come funziona il sistema inglese?
«In Inghilterra i professori vanno in pensione a 67 anni, dunque più o meno alla stessa età prevista dalla riforma. La differenza è che lì nessuno si lamenta. Eppure lasciare le università inglesi significa davvero uscire di scena: una volta fuori è impossibile continuare ad esercitare forme di influenza e ingerenza, come accade in Italia».
Dunque è giusto pensare di rottamare i professori?
«La parola rottamazione è dettata dal risentimento ed è carica di una certa emotività. È legittimo che ci sia un cambio di guardia, che si faccia spazio alle nuove generazioni. L’insegnamento universitario è un lavoro che richiede energia. Più si va avanti con gli anni, più si ha la testa impegnata in altre cose».
Lei pensa che i sessantenni siano tutti baroni?
«È vero che esistono anche baroni in pectore trentenni, ma per statuto il barone deve aver superato i 60 anni. Il potere accademico si acquista attraverso contrattazioni di anni. Non credo sia una perdita se si fa spazio ai giovani. In realtà questa riforma è una misura antibaronale ».
Il rischio è che si mandino via persone senza che vengano sostituite e che le università non facciano nuove chiamate.
«E invece non deve essere una misura per risparmiare ma per ringiovanire il sistema, per investire in nuove energie intellettuali. Ci sono molti atleti in panchina che non aspettano altro che riuscire a giocare la partita».
Può bastare la riforma delle pensioni a cambiare un sistema?
«È un primo passo. Certo, l’università italiana è un corpo malato, un luogo allo sbando, sarebbe meglio intervenire su più fronti. Per esempio iniziare a distinguere tra un ateneo che funziona e uno che non funziona, aprire agli stranieri e cambiare radicalmente il rapporto tra docente e discente per aiutare gli studenti a sviluppare senso critico. In Italia domina il modello feudale, i giovani sono bravi ma passivi, asserviti ai professori dai quali dipende il loro futuro».
Più che una rivoluzione burocratica quindi servirebbe una rivoluzione culturale?
«L’accademia risente del degrado morale del paese, vive una mostruosa asfissia. E’ maschiocentrica, familista e chiusa agli stranieri. Retta da una logica che andrebbe combattuta».
Crede che i giovani sapranno essere diversi?
«Certo potrebbero riprodurre gli stessi ingranaggi, ma bisogna dargli fiducia. Impensabile che stiano con la testa sott’acqua troppo a lungo».

La Repubblica 29.07.14