Per tutto lo scorso week end editoriali compunti hanno spiegato ai nostri nonni come facilmente si sarebbe potuta evitare la Prima Guerra Mondiale un secolo fa. Se solo il Kaiser fosse stato meno militarista, l’Imperatore meno decrepito, le democrazie meno avide, i nazionalisti meno settari… Peccato che noi, nel 2014, siamo incapaci di spegnere i conflitti in Libia, brucia l’aeroporto a Tripoli e l’ambasciata Usa viene evacuata, in Egitto dove solo la repressione, perfino contro i giornalisti di Al Jazeera, permette al regime di governare, in Siria, 170.000 morti e milioni di profughi, in Iraq con le milizie di Stato Islamico ad occupare le città mentre i peshmerga curdi si armano a Nord, per non dire del confine Russia-Ucraina della bara volante MH17, Gaza, Hamas, Israele.
Risolvere le guerre lontane, libro ingiallito, filmato bianco e nero, dagherrotipo color seppia dei caduti malinconici, è war game per accademici, far arretrare Putin, sedare lo scontro tribale libico, chiudere la jihad sunniti-sciiti tra Iran, Siria, Libano e Iraq, impresa ardua. Facciamo male a irridere i nonni, i nipoti irrideranno noi. E di tutte le guerre che non sappiamo comporre, nessuna come quella che infuria dal 1948 tra Israele e arabi scandalizzerà in futuro, perché dopo frettolosi premi Nobel per la pace – il martire Rabin, Arafat, Obama -, convegni, manifestazioni, tomi a iosa, la vecchia fiaba del buon senso «Due popoli, Due Stati» strappa sempre l’applauso dei bene intenzionati e un buon voto nella tesi di laurea, ma sul campo, in Cisgiordania, a Gaza, a Gerusalemme, è equazione impossibile.
All’inizio della sua avventura alla Casa Bianca il cerebrale presidente Barack Obama auspicò che non essere unilaterale come George W. Bush, parlare a cuore aperto all’Università del Cairo, bastasse a sciogliere la storica diffidenza araba. Sei anni dopo, prende atto di non avere fatto breccia nella umma musulmana, di avere pessimi rapporti con l’Egitto, di aver perduto contatto con la Libia, di non aver piegato Assad in Siria, come era possibile senza tentennare, lasciando l’Iraq in mano alla minaccia fondamentalista. Perfino con Israele – storico alleato Usa – i rapporti sono pessimi, l’85% degli israeliani approva il raid contro Hamas del bizzoso premier Benjamin Netanyahu. Le personalità dei due leader, l’ex professore di diritto ad Harvard Barack contro l’ex commando delle Forze Speciali «Sayeret Matkal» Bibi, sono opposte, i due si detestano, ma chi crede che Washington e Gerusalemme non si intendano per questo è ingenuo, come gli strateghi che spengono la Prima Guerra Mondiale sull’iPad.
Per capire cosa sta accadendo nell’asse sterminato dal Nord Africa a Donetsk, passando per Gaza e arrivando nel Sud Est asiatico che la Cina vuole sotto la sua influenza, dovete partire dal punto che elude diplomatici ed analisti fermi allo status quo del Novecento: il mondo non ha guida, l’equilibrio bipolare Usa-Urss della Guerra Fredda è finito con il Muro di Berlino e l’effimero Nuovo Ordine Mondiale della globalizzazione a guida Usa del sottovalutato presidente Bush padre s’è arrestato l’11 settembre 2001. Il gelo tra Casa Bianca e Netanyahu non è «colpa» dall’algido presidente Obama: al contrario, Obama è stato eletto proprio perché la maggioranza degli americani non ritiene che, nella crisi economica e con il ceto medio che perde status e lavoro davanti all’industria robotizzata, gli Usa debbano essere vigile urbano del pianeta. Un tempo l’Aipac, il gruppo di pressione legato a Israele, era il più potente a Washington, adesso è uno fra i tanti, sui media Usa, online e nei talk show, la versione filo palestinese riceve spazio come la israeliana, non è più scandaloso evocare «la lobby ebraica». Obama sa di non avere né strategia, né diplomazia o consenso popolare per imporre pace o tregua, a Gaza. Netanyahu sa che Israele ha guai peggiori che non il broncio del generoso, e isolato, segretario di Stato Kerry. Intanto l’Onu, bloccata da Cina e Putin, ricorda un poco il Rotary Club, dibattiti felpati, e l’Europa attende dopo Ferragosto di lottizzare le sue nomine, poi interverrà.
In Medio Oriente il gioco è ribaltato rispetto a una generazione fa, il duello tra missili di Hamas e Scudo di Ferro dell’Idf, l’esercito israeliano, che poi su twitter ingaggiano la guerra psicologica, è politico non militare. L’Egitto di Al Sisi è felice di vedere distrutti i tunnel dell’odiata Hamas, silente alleato di Netanyhau. L’Iran combatte la guerra civile sunniti-sciiti, Turchia e Qatar, ambasciatori di Hamas, condannano Israele, consapevoli che la battaglia finirà quando Netanyahu ed Hamas avranno ottenuti i loro obiettivi: per i primi dimostrare agli islamisti di essere a loro volta «duri», per Gerusalemme ottenere una stagione di tregua.
Verranno un nuovo presidente americano e un nuovo premier israeliano, ma il mondo cercherà ancora a lungo – per una generazione almeno – il nuovo leader, un equilibrio stabile, una Pax Globale. Nel frattempo la piramide dei morti innocenti crescerà, indifferente al chiasso volgare delle propagande che se ne contendono la memoria offesa.
La Stampa 29.07.14