Il Ministro Pier Carlo Padoan intervenendo alcuni giorni fa in Parlamento sugli esiti dell’Ecofin, ha chiuso la porta a facili entusiasmi sulla portata delle politiche sociali ed economiche in merito a crescita dell’occupazione e a rilancio dell’economia: «i progressi saranno indicati nel Def di settembre», ha detto il ministro, ma è indubbio che «per la crescita non esistono scorciatoie». Crescita che sarà debole e incerta, specchio degli stretti margini di manovra a disposizione del governo (e dei governi Ue). Si tratta di un riconoscimento dell’impotenza del potere decisionale degli Stati nazionali, non soltanto per i vincoli del Patto di Stabilità, ma ancora prima quelli imposti dalla crisi finanziaria, dai costi sempre più alti delle politiche sociali e dal peso del debito pubblico. L’unica progettualità certa sembra consistere nel restringimento del ruolo dello Stato nelle politiche sociali e nei tagli. E i dati Istat sulla crescita della povertà assoluta, l’erosione del benessere diffuso e del senso di sicurezza sul futuro lo confermano.
Ha scritto Zygmunt Bauman, in un saggio dal titolo significativo Verso un nuovo umanesimo , che se nel Ventesimo secolo la questione della politica era “che fare?” ora è invece “chi lo farà?”. L’attenzione si è spostata dalle visioni alle funzioni, dal progetto alla gestione. Chi sono i protagonisti della decisione in questa fase che, con le parole di Gramsci, si può chiamare di “inter- regnum”? La vecchia volontà era associata alla sovranità dello Stato Nazione: la divisione tra destra e sinistra che ne strutturava la politica era relativa agli equilibri sociali interni agli Stati, alle alleanze o alle alternative tra partiti rappresentativi di interessi socio-economici chiari. Quella volontà alla quale ancora oggi associamo la politica è in disarmo. Impotente e incapace a programmare nonostante sia ancora il volto del potere che si rivolge ai cittadini per chiedere loro sostegno, sacrificio, cooperazione.
Ma i poteri che decidono su come sarà la nostra vita, su che cosa possiamo sperare di realizzare, sono fuori dagli strumenti di controllo politico sui quali le nostre democrazie si sono stabilizzate e, ancora oggi, chiedono legittimità e consenso. La struttura democratica di decisione con sistemi elettorali di rappresentanza popolare, con il monopolio statale in settori nevralgici, con istituti di controllo costituzionale delle maggioranze: questa struttura democratica era basata sull’assunto che lo Stato Nazione avesse in mano il governo del territorio, che fosse sovrano.
Oggi, i governi sono ancora sottoposti al controllo dei cittadini e delle costituzioni, sennonché altri sono i vincoli determinanti: quelli dettati dai mercati finanziari e dalle politiche monetarie dirette dalle banche. Insomma i referenti ufficiali — coloro che portano la responsabilità e subiscono le conseguenze delle decisioni dei governi — sono i cittadini, ma le politiche messe in campo sono determinate non dalla loro volontà, bensì da altri referenti, il cui potere è informale e “soft”, non sottoposto allo stesso controllo al quale sono sottoposti i poteri politici tradizionali.
L’inter-regnum designa dunque una crisi di autorità. Perché l’attore della politica — lo Stato Nazione — non ha nelle sue mani le leve della decisione. Quel che promettono i governi sempre più aleatorio e incerto. Questa condizione è rappresentata dalle parole di Padoan che, da un lato fanno la cronistoria delle politiche messe in cantiere, e dall’altro spengono gli entusiasmi sulle reali opportunità che il governo ha di attuare il programma. Come reagisce la politica a questa fase?
A questa crisi di autorità corrisponde paradossalmente una mutazione della democrazia da parlamentare a esecutivista. È come se la riposta ai ristretti margini di libertà di azione spinga i governi a reclamare più potere decisionale, più libertà da lacci imposti dalle procedure e dalle istituzioni della democrazia costituzionale. Lo Stato nazionale è in una crisi di sovranità e i governi reclamano più potere. Ecco il senso della riflessione di Bauman per cui mentre nei decenni della ricostruzione democratica la domanda della politica era “che fare?” oggi la domanda è “chi lo farà?” Non il progettare ma il fare all’interno del corridoio stretto che la sovranità dei mercati finanziari picchetta. Al declino di autorità dello Stato le democrazie rispondono sacrificando il potere del parlamento ed estendendo quello del governo, una strategia emergenziale. In questa cornice va iscritto il processo di riequilibrio dei poteri dello Stato, senza alcuna certezza che più potere di decisione si traduca in decisioni meglio attrezzate a rispondere ai bisogni di una società impoverita e sfiduciata.
La Repubblica 29.07.14