Cominciamo a tener viva quella cultura critica della fine che in fondo ha salvato la nostra civiltà Da Ausonio a Gregorio Magno, a Tacito, fino a Tolstoj
Questo «Domenicale» ha ospitato più volte, e anche di recente, articoli sulla crisi della scuola italiana, sulle ragioni del merito, sul come premiare gli insegnanti meritevoli, sul come frenare l’emorragia dei “cervelli”, sul come valutare i test che valutano (prove Invalsi, eccetera).
Mi limiterò, inquesto mio intervento, a qualche ragione sul come «ben meditare della fine». Vorrei dunque subito sgombrare il campo da ogni ragione economica e sociologica e venire a quelle nervature che tali rimangono, tanto che lo stipendio degli insegnanti sia fissato a 1.500 euro al mese (quando va bene), o a 4.000 (come accade in molti paesi europei, ma non in Italia).
Vorrei anche chiarire che, almeno per una ragione, il Governo dovrebbe salvaguardare la scuola: e cioè che essa, preparando il futuro della società italiana, è l’unico asset, (risorsa, nel mio italiano) che non abbiamo ancora venduto (ma anche questo accadrà, quando dall’estero si renderanno conto che non basterà ricevere i cervelli in fuga, ma sarà meglio coltivarli e prenotarli sin dai Licei; come già la Migros e altre multinazionali faceva e fanno con le buone culture di uva da tavola e pomodori in Italia, eccetera).
E in effetti non ci rimane che vendere il futuro, visto che il miglior presente è quasi tutto venduto. Ora, affinché questo non accada o accada con quelle «rotture instauratrici» (Michel de Certeau) che poi fanno dirompere altro futuro, è necessario – a mio modesto avviso e dopo quasi 25 anni di esperienza di insegnamento all’estero – cominciare a tener viva quella «cultura critica della fine» che in fondo ha (quasi sempre) salvato la nostra civiltà. Partiamo proprio dalla nozione, e dai segni premonitori, della fine: quasi tutta l’Europa della tarda antichità ne ebbe coscienza (per la civiltà romana classica): da Ausonio a Gregorio Magno. Ma nessuno fu così precocemente attento e premonitore come Tacito nella sua Germania, secoli prima della fine. Ora chi legga quel ritratto-trattato non ha poi bisogno di molto altro per comprendere le ricorrenti crisi della “romanità” (non meno che del mondo tedesco-prussiano); altre culture dovranno attendere secoli e secoli per aver coscienza della loro fine (Chateaubriand o Flaubert, Stern o Melville, Dostoevskij o La morte di Ivan Il’ic di Tolstoj).
Assistiamo dappertutto alla «crisi dei soggetti» (dopo averne celebrato con il Pci di Occhetto i fasti); basterà ritornare al diritto romano e alle acute osservazioni di Paolo Grossi (ora giudice della Corte costituzionale) per constatare la «vanificazione – avvenuta nella modernità giuridica – della dimensione sociale e della dimensione collettiva del soggetto». Comunità, bene comune, sono principi che vanno da Eros e Agape di Anders Nygren al concetto di “comunità” olivettiano. Politica e filosofia greca, civitas romana, utopia cristiana.
Il particulare, anche virtuale, s’insedia dappertutto; ma la scuola italiana – per sua fortuna – è vissuta di universali, dagli universalia tantum della filosofia medievale all’idealismo di Gentile (che riformò in profondo i programmi liceali); e persino Gramsci – che pure lo criticava – ebbe a riconoscerne il fondamento. Dopo aver acutamente osservato che: «Il latino si presenta (così come il greco) alla fantasia come un mito, anche per l’insegnante. Il latino non si studia per imparare il latino; il latino, da molto tempo, per una tradizione culturale-scolastica di cui si potrebbe ricercare l’origine e lo sviluppo, si studia come elemento di un ideale programma scolastico, elemento che riassume e soddisfa tutta una serie di esigenze pedagogiche e psicologiche; si studia per abituare i fanciulli a studiare in un determinato modo, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere che continuamente si ricompone in vita, per abituarli a ragionare, ad astrarre schematicamente pur essendo capaci dall’astrazione a ricalarsi nella vita reale immediata, per vedere in ogni fatto o dato ciò che ha di generale e ciò che di particolare, il concetto e l’individuo», concludeva con vigore: «La logica formale è come la grammatica: viene assimilata in modo “vivente” anche se l’apprendimento necessariamente sia stato schematico e astratto, poiché il discente non è un disco di grammofono, non è un recipiente passivamente meccanico, anche se la convenzionalità liturgica degli esami così lo fa apparire talvolta. Il rapporto di questi schemi educativi collo spirito infantile è sempre attivo e creativo, come attivo e creativo è il rapporto tra l’operaio e i suoi utensili di lavoro; un calibro è un insieme di astrazioni, anch’esso, eppure non si producono oggetti reali senza la calibratura, oggetti reali che sono rapporti sociali e contengono implicite delle idee. Il fanciullo che si arrabatta coi barbara, baralipton, si affatica, certo, e bisogna cercare che gli debba fare la fatica indispensabile e non più, ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè sottostare a un tirocinio psico-fisico. Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza» (Quaderni del carcere, Quaderno12; edizione Gerratana, Einaudi, vol. III, p. 1549). Oggi siamo molto lontani da tutto questo: né la grammatica latina, né la logica organizzano più il pensiero dei nostri ragazzi; ma sono ancora in un limbo (non del tutto abolite) dal quale attendono le trombe dell’Apocalisse per risorgere; basta avere coscienza che l’Apocalisse è già qui, anche se le trombe sono afone.
Anche la cultura scientifica più inventiva ne ha sempre avuto, lungo il XX secolo, coscienza: da Erwin Schrödinger, pioniere della fisica dei quanti e squisito poeta (senza ricordare il suo: Nature and the Greeks) a Conrad Hal Waddington, uno dei padri della epigenetica, ma insieme paleontologo, e umanista insigne.
Ecco, credo che non ci sia altra soluzione che non rinunciare alla “coscienza della fine”: solo così le mode, le poetiche dei soggetti virtuali, del Web che collasserà, finiranno prima, molto prima, per la certezza di aver, troppo rapidamente, vinto: anche questo abbiamo imparato dai Romani, la tecnica, compatta, della “testuggine”; serrare i ranghi, lasciar piovere i dardi, e avanzare. Il primo che alzerà lo scudo “per vedere”, sarà perduto…
da IlSole 24 Ore