ARRIVA un bastimento carico di… paure e speranze, esistenze cancellate e nuove vite, vergogna e riscatto, stupidità e intelligenza, specchi e buchi neri. Di tutto. Troppo.
La vicenda della Costa Concordia affondata davanti all’isola del Giglio il 13 gennaio 2012 e ripartita ieri per l’ultimo viaggio è il grande romanzo popolare italiano che nessun autore ha saputo né voluto scrivere per difetto di fantasia ed eccesso di narcisismo. Eppure quella metafora ri-galleggiante, quel vaso di Pandora è anche legata al nostro ombelico: basta guardarla e guardarsi, ma senza caricarla di troppe allegorie, altrimenti torna giù.
La notte in cui va a fondo ridefinisce i confini della tragedia, almeno per chi, anziché conoscerla, la immagina. Nella sua rappresentazione la si ammanta di epica e di mistero. L’aereo malese scompare nel nulla. Il treno spagnolo esplode squarciato dall’esplosivo terrorista. La nave italiana cola a picco davanti alla terraferma mentre esegue un “inchino”, termine e gesto associati al buffo, mai al drammatico. Eppure è così, le strade che portano alla fine sono diverse e perverse: un giovane Kennedy muore precipitando con l’aereo per una manovra sbagliata, un altro battendo la testa contro un albero mentre gioca a rugby sulla neve. C’è il Titanic e c’è la Concordia: la maestosa minaccia dell’iceberg e l’indecifrabile agguato del niente. C’è sempre tempesta quando l’encefalogramma del comandante segna calma piatta.
Questa è, come nessun’altra, una storia di vergogna individuale e nazionale. È la creazione di una maschera: Arlecchino, Pulcinella, Schettino. Un termine di paragone a cui vengono associati di continuo, a torto o a ragione, personaggi della vita pubblica. Il capitano che scappa diventa il poster boy di una propaganda anti italiana che un tempo serviva spaghetti con la pistola sulla copertina di Der Spiegel e ora si vede servito su un piatto d’argento l’immagine ideale. Alla viltà si aggiungono l’assenza di pudore («Inciampai nella scialuppa ») e il terminale dileggio quando, il 27 febbraio scorso finalmente «torna a bordo» per un sopralluogo, si scatta un selfie con il giubbotto di Cassano e alle domande dei giornalisti risponde strafottente: «Voi non avete capito un cazzo!». Un editore americano guardando quel video mi disse: «Altroché Berlusconi, a voi i danni più grandi li ha prodotti questo qua!».
Nick Sloane, il cowboy del mare venuto dal Sudafrica per rimettere in linea di galleggiamento la Concordia, può riportare in alto una nave, non una reputazione. Tutta la splendida truppa internazionale che ha lavorato con lui, il sub spagnolo annegato sotto al relitto, le eccellenze italiane per una volta degnamente capitanate dal capo della Protezione civile Franco Gabrielli fanno storia a sé. Sono altri capitoli della stessa vicenda: non riparano, aggiungono. Interpretare la carcassa riaffiorata come un roseo vaticinio è stata una forzatura. È, semplicemente, il mondo che gira: basta uno sprovveduto per fare un danno immenso, ci vogliono dozzine di uomini capaci per realizzare una piccola cosa di buon senso.
La nave affondata è un catalizzatore, incrocio di destini e microcosmo dove si annodano vita e morte. In questo caso: invertendo l’ordine. All’udienza processuale del 29 aprile scorso la folla ascolta commossa il resoconto della scomparsa della piccola Dayana, inghiottita da un pozzo, e del padre William, che per cercare di salvarla si staccò dalla compagna Michela, ma morì anche lui. Ieri, reazioni di segno opposto per l’annuncio che Simon e Virginia, diventati intimi durante i lavori di recupero al Giglio, in agosto daranno alla luce il piccolo Filippo. In un racconto del Taccuino rosso lo scrittore americano Paul Auster narra di una monetina che la sua ex moglie lancia dalla finestra al bambino quando lui va a prenderlo per portarlo allo stadio. Gliela butta perché si compri un gelato, ma rimbalza su un ramo e scompare. Quando padre e figlio arrivano allo stadio e si mettono in coda per il gelato abbassano gli occhi e vedono a terra
una monetina. Ora, chi ha fede nella magia chiamata provvidenza penserà che sia la stessa. E che ci sia un soffio di Dayana in Filippo.
La Concordia ti mette davanti agli interrogativi universali e non ti dà risposte, come non si rinviene il corpo dell’indiano Russel Rebello, ma è proprio allora che accettiamo la natura miracolistica del caso e ci sediamo pacificati ad ascoltarne la musica: il tutto è una somma algebrica che dà infinitamente zero.
Ci sono stati picchi di avidità e idiozia, richieste di rimborsi improbabili, scarico di responsabilità, brama di notorietà. E altrettanti di tenerezza, lucidità, senso del dovere e del diritto. È una storia che comunque torna a riva, seguendo il destino perpetuo dell’annullamento di ogni materia. C’è stato un momento da brivido ieri, quando è stata issata la bandiera nautica blu con la lettera P (papa) che significa: «Tutti a bordo, stiamo per salpare». Se mai ne abbiamo vista una, ecco la nave fantasma.
È riemersa dall’ingloriosa tinozza dove era caduta, si è rialzata e ci ha riprovato, ricordandoci che non è finita finché è finita: perfino i relitti hanno ancora strada da fare, se c’è qualcuno in grado di accompagnarli. Sotto i nostri occhi sono tornati a bordo, cazzo, davvero tutti: i sopravvissuti e gli scomparsi, i vili e i coraggiosi, i retti e i disonesti. L’ultimo viaggio è straordinario perché è un distacco dalla rassegnazione senz’altra meta che una conclusione più decorosa. Insegna che anche la decenza è un esercizio di volontà. Per due anni e mezzo di fronte a questa carcassa, alle mosche che le ronzavano intorno, al tanfo che si spandeva, abbiamo provato un senso di nausea che neppure oggi, vedendola navigare, si attenua. Il grande romanzo italiano della Concordia è purtroppo una storia universale, capace di mettere in scena la realtà e, come tale, non riconosce estraneità. Consegna a tutti noi il biglietto di passeggeri e ci dice che solo al fondo della notte sapremo se siamo Schettino, un marinaio coraggioso o semplicemente una vittima. Fino ad allora navighiamo a vista, con un bagaglio di supposizioni, consapevoli che ogni confine, tra la miseria e la grandezza, la tragedia e il ridicolo, la vita e la morte è una linea tracciata a matita su una carta dove, dell’oceano, è disegnato un riquadro appena che lo rende inconcepibile.
da La Repubblica