L’Europa ha lanciato ieri il secondo ultimatum alla Russia di Putin in meno di un mese. Il primo è andato a vuoto, dimenticato. Il secondo forse non farà la stessa fine perché, se di fatto si può provare a chiudere un occhio sull’annessione della Crimea e sui torbidi della crisi ucraina in bilico tra guerra civile aperta e scissione, perfino per la cinica Europa diventa difficile ignorare il crash di un aereo di linea.
L’aereo abbattuto da un missile partito dall’Ucraina separatista e i suoi 298 morti, quasi 200 olandesi. Forse, se la Russia continuerà a non cooperare per fermare i secessionisti da Kiev, le sanzioni europee, finora poco più che simboliche, faranno dunque un salto di qualità per colpire settori-chiave come mercato dei capitali, difesa, high-tech, energia. Forse, perché ancora non sono state messe a punto, perché tra i 28 non c’è ancora l’accordo, escluse ieri le dovute parole forti di condanna dei ministri degli Esteri Ue sull’onda di un’unanime e unitaria reazione emotiva. Forse, infine, perché ci vorrà un vertice straordinario dei capi di Stato e di Governo dell’Unione per vararle, forse entro il 1° agosto.
Gli Usa premono pesantemente e al tempo stesso ironizzano sull’Europa imbelle e spaccata, chiedendosi se l’abbattimento di un aereo civile «potrà bastare a darle la sveglia». In realtà per ora Francia e Gran Bretagna, le uniche due potenze militari europee il cui accordo è ineludibile se davvero si vuole cominciare a immaginare la creazione di una politica estera e di difesa comune, non solo hanno riposto nel cassetto le vecchie ambizioni integrazioniste ma in queste ore giocano addirittura a rinfacciarsi accuse di collaborazionismo con la Russia: Londra ritiene «impensabile» che François Hollande rispetti il contratto da 1,2 miliardi firmato nel 2011 per la vendita a Mosca di due navi da guerra. Parigi ritorce ricordando che David Cameron ospita a Londra «comari e oligarchi» vicini al presidente russo.
Del resto nei rapporti con Mosca tutti in Europa hanno più di uno scheletro nell’armadio: se sull’ipotesi di un embargo sulla vendita di armi è la Francia il Paese più riluttante (ma non il solo), Gran Bretagna e Austria frenano sulle sanzioni finanziarie, mentre quelle energetiche mettono alla prova i paesi dell’Est, Germania e anche l’Italia.
A questo punto però il problema è ben altro. E per tutti, nessun Paese escluso. Il problema è sapere fino a quando l’Europa può illudersi di poter continuare ad anteporre i suoi interessi economici a breve a qualsiasi altra considerazione, etica e strategica, senza poi pagarne lo scotto. Il modello del gigante economico che riposa sul suo mercato unico e sulla sua moneta unica, senza pensare quasi a niente altro, non funziona più: non solo perché l’Europa invecchia e cresce sempre meno e deve fare i conti con l’interdipendenza globale che non cessa di morderla ai fianchi ma anche perché la Nato sta cambiando pelle e la garanzia dello scudo americano resta ma non più nella versione illimitata e incondizionata dei bei tempi andati. Sono anni ormai che gli Stati Uniti pretendono un impegno sempre più concreto degli europei sulla difesa, in termini di maggiore spesa e non solo. Finora senza esito.
Ma fino a quando l’Europa potrà continuare a far finta di non sentire? E addirittura di non vedere di essere diventato un continente letteralmente sotto assedio?
Non c’è solo la crisi ucraina con il suo ignoto portato di destabilizzazione a ribollire alle frontiere, all’ombra di una Russia dai progetti di potenza forti e insieme ambigui. C’è la Siria, la sua sanguinosa guerra civile e lo spettro di un’altra spartizione, c’è l’Iraq che barcolla sotto i colpi di nuovi estremisti islamici, c’è lo scontro in atto tra sunniti e sciiti, c’è la Libia divisa in due, ci sono l’Iran e gli emiri del Golfo che mestano nella regione, il Medio Oriente in fiamme, il Nordafrica che non smette di scaricare profughi e disperati su confini e coste europee.
Oggi una politica estera e di difesa comuni, come un ripensamento della cultura europea del pacifismo cieco e acritico inseguendo un mondo che non c’è, come una politica di immigrazione e di integrazione degli immigrati a livello europeo sono urgenze, o meglio emergenze, che non si possono più ignorare. Senza rischiare alla lunga di farsi male. Molto male. Purtroppo l’Europa per ora si limita a baloccarsi, peraltro con fatica, con il pallottoliere delle sanzioni: una a te, un’altra a me, anzi no. Se non cambia, di questo passo non riuscirà ad andare molto lontano.
da Il Sole 24 Ore