Sicuramente nel rapporto che si è instaurato tra Giorgio Napolitano e Matteo Renzi prende forma un elemento preminente: la cooperazione. Negli obiettivi e — se così si può dire — nel timing. Nei tempi in cui le cose possono o debbono accadere .
MA NELL’INTERVENTO svolto ieri dal presidente della Repubblica a sostegno del percorso riformatore individuato dal governo e da una larga maggioranza parlamentare, c’è anche qualcosa di più. L’idea che la stabilità e la credibilità dell’intero sistema politico siano appese proprio al risultato che il Senato produrrà in queste settimane sul disegno di legge costituzionale.
Il suo secondo mandato presidenziale, del resto, trova fondamento proprio su questa esigenza. Sulla necessità di offrire al Paese un nuovo impianto istituzionale e una nuova legge elettorale in grado di dare solidità a un sistema che è andato via via sbullonandosi e impoverendosi. Dopo diversi tentativi questa si presenta allora agli occhi degli italiani — e del Quirinale — come l’ultima chance. Del resto, la “staffetta” di febbraio scorso tra Enrico Letta e Matteo Renzi in una certa misura si è incardinata su questa direttrice. E il capo dello Stato l’ha avallata e timbrata proprio in questa chiave. Considerando la nascita di un governo presieduto dal segretario del maggior partito italiano, il Pd, come l’ultima occasione di cambiamento.
I giudizi sulla “deriva autoritaria” di queste riforme non potevano dunque che essere respinti. Napolitano ha più volte rimarcato che, tra i paesi a democrazia avanzata, il nostro bicameralismo perfetto rappresenta un’eccezione. E si è ripetutamente speso per una sua correzione. Ma in qualità di “garante” delle istituzioni e della Costituzione ha voluto — e forse dovuto — smentire chi parla, come Beppe Grillo, di svolta “fascista”.
La cooperazione tra Napolitano e il premier si basa quindi su questo presupposto. La moral suasion che il Colle ha ieri praticato nei confronti di Palazzo Madama ne è l’espressione. Si potrebbe parlare di un semplice asse tra le due cariche. Ma non è solo questo.
C’è una coincidenza di tempi e contenuti che ha a che fare anche con la natura del secondo settennato accettato da Napolitano
poco più di un anno fa. Il bis fu sottoposto a un’unica e imprescindibile condizione: fare le riforme per poi lasciare. Esiste allora una convergenza sulla necessità di mettere in sicurezza il sistema politico e di farlo entro vincoli temporali adeguati. Il presidente della Repubblica vuole interrompere il suo mandato con la certezza di un nuovo quadro costituzionale e soprattutto quando un nuovo sistema elettorale ha sostituito quello imposto dalla Consulta con la sentenza che ha spazzato via il vecchio e incostituzionale “Porcellum”.
La coincidenza tra Quirinale e Palazzo Chigi riguarda quindi merito e timing. I rimproveri a chi frena le riforme invocando più tempo e le sollecitazioni a chi si impegna nell’ostruzionismo con l’obiettivo di far saltare tutto ne sono la logica conseguenza. Basti pensare che proprio mentre il presidente della Repubblica svolgeva il suo affondo, il Pd al Senato reclamava una conferenza dei capigruppo per sveltire il calendario dei lavori dell’aula.
Anche grazie al sostegno di Napolitano, Renzi può permettersi di alzare il livello della sfida. Vuole tirare dritto senza mediazioni. Mette sul tavolo della trattativa solo due carte: o si approvano le riforme o si va a elezioni anticipate. Pensa di poter contare sulla impazienza degli italiani che seguono con disagio e forse anche con un eccesso di antipolitica la difesa del Senato. E con il voto di ieri a Palazzo Madama sul programma dei lavori ritiene anche di aver dimostrato di avere i numeri per andare avanti anche senza la Lega e soprattutto senza Forza Italia.
Ma la giornata di ieri e le parole di Napolitano hanno offerto pure una conferma. È finita la stagione dei “governi del presidente”. L’appoggio dato dal Colle a Palazzo Chigi — e non viceversa — è il segno che nel sistema duale tipico della nostra Costituzione, la politica sta riconquistando un ruolo. «Nulla è semplice, nulla avviene senza complicazioni e sofferenze», scriveva nel ‘61 Pier Paolo Pasolini. In effetti cambiare la Carta elaborata dai costituenti del 1948 non è per niente semplice. Ma è si è ormai trasformato nel momento della verità. Se la politica fallirà anche questa ennesima prova, la legislatura probabilmente finirà. E il sistema rischierà il collasso.
da La Repubblica