I cadaveri erano 21, li ho contati uno ad uno, tutti accatastati, uno sopra l’altro, molti erano nudi. C’erano corpi insanguinati con delle visibili ferite da taglio e dei lividi: sono stati uccisi mentre tentavano di uscire da quella trappola infernale, come hanno raccontato i sopravvissuti».
IL MARESCIALLO capo Giuseppe Palmisano, comandante della motovedetta CP319, ha gli occhi gonfi. È spossato dalla lunga traversata a oltre 30 nodi all’ora per raggiungere venerdì sera quel barcone che stava affondando. Non riesce a trattenere commozione e tristezza. «Quando sono arrivato sull’“obiettivo” con i miei colleghi e con l’altra motovedetta sono salito a bordo del barcone e sapevo già quello che avrei trovato: un vero e proprio camposanto appena galleggiante. Sono entrato dentro la stiva perché alcuni dei superstiti ci avevano detto che c’erano altre persone, forse vive, forse morte. Non è stato facile camminare su quei cadaveri. Poi però da quel groviglio di morte si è mossa una mano, qualcuno con quel gesto ci chiedeva aiuto e ci ha fatto sapere che era vivo. Gli ho toccato la carotide, il sangue pulsava e ho sentito anche un leggero respiro. Sembrava l’ultimo, ma ultimo non è stato. Era vivo. L’abbiamo estratto a fatica e portato sulla nostra motovedetta».
Non era l’unico a respirare ancora, su quella carretta del mare. «Altri due corpi, sotto altri corpi immobili, si muovevano. Anche loro erano vivi. Li abbiamo caricati come il primo. Le loro condizioni erano disperate e quindi abbiamo fatto di tutto per trasferirli da quel mare che cominciava ad agitarsi fino al porto di Lampedusa. Ma durante il tragitto uno dei tre, il primo che avevamo soccorso, non ce l’ha fatta. Gli altri due, approdati a terra, sono stati caricati su un elicottero e portati in un ospedale di Palermo. Spero che sopravvivano».
Il maresciallo Palmisano ieri notte, nonostante l’orrore cui è stato testimone, è riuscito a dormire. Un po’, poche ore. «È brutto dirlo ma ormai mi sto abituando a queste carneficine, diventate quasi quotidiane. Sono mesi che siamo impegnati in turni massacranti e, ogni volta, la stessa scena. I morti sono di più di quelli che ho contato. Altre persone, cadute in mare prima del nostro arrivo, sono annegate. Non so quante. Alcuni superstiti ci hanno detto che a bordo c’erano tra i 500 e i 600 profughi, quattrocento sono stati recuperati ». Dei sopravvissuti siriani, trasbordati sul mercantile danese dalle motovedette italiane, hanno raccontato che quelli della stiva sono stati ammazzati da altri “neri” perché tentavano di uscire dal boccaporto di quella trappola. «Sono stati presi a bastonate e a coltellate da chi li spingeva giù. Avevano paura, ma ce l’avevamo anche noi».
L’ultima carneficina di questa apocalittica emigrazione dalle coste africane era stata annunciata venerdì sera alle 19.28. «Stiamo morendo, stiamo affondando, siamo a bordo di una barca a 65 miglia a sud di Lampedusa, aiutateci, fate presto, siamo oltre 600 , ci sono molte donne e bambini ed alcuni sono già morti…». L’allarme era stato lanciato con un telefono satellitare, forse era proprio uno degli scafisti a chiamare il centralino del Comando generale delle capitanerie di porto a Roma. E nella sala operativa è scattata l’emergenza, l’ennesima. La posizione dell’imbarcazione con il suo carico di disperati è stata subito localizzata, così come è stato individuato e avvertito del messaggio di sos il mercantile danese “Torm Lotte”, diretto nel porto tunisino di Lasckhirra, che navigava a poche miglia dal barcone. Contemporaneamente da Lampedusa lasciavano
gli ormeggi due motovedette della Capitaneria.
Quando, dopo poco meno di due ore, arrivano sul quel tratto di mare, l’ennesima scena da apocalisse. Gente a mare, altri che disperatamente salgono su una biscaggina (una scala di corda, ndr) calata dal mercantile danese, altri morti in coperta ed un cimitero dentro la stiva. Il barcone che ondeggia pericolosamente, molte mani, quasi tutte nere, si alzano per richiamare l’attenzione dei loro soccorritori, altri, almeno una cinquantina, finiscono in mare. A quel punto succede un vero e proprio finimondo. Vogliono tutti abbandonare il barcone ma è pericolosissimo, i marinai delle motovedette italiane tentano disperatamente di calmarli, ma scoppia una violenta lite. Tutti vogliono salvarsi, tutti vogliono vivere, nessuno ci sta a morire in fondo al mare a pochi chilometri dalla terra per loro promessa.
In 18 non ce la faranno. Rimasti intrappolati come topi in una gabbia. I loro cadaveri sono ancora in viaggio, l’ultimo viaggio, nella bara galleggiante che li contiene, agganciata da un pattugliatore maltese in navigazione verso La Valletta. Lì saranno seppelliti. Perché i maltesi i vivi non li vogliono, sono troppi, circa 500 o 600 e i loro “centri di accoglienza”, chiamiamoli così, sono strapieni. Non vogliono né possono contenere altri ospiti. I cadaveri sono ancora dentro la pancia della barca e stamattina scatteranno le operazioni del loro recupero. «Dobbiamo trovare più risorse per Frontex Plus, ma il problema dell’immigrazione va risolto alla radice», dice il presidente del Consiglio Matteo Renzi da Maputo, prima tappa del suo tour africano. L’Italia «userà tutti gli spazi possibili per intervenire», perché «quella dell’immigrazione è una priorità». Priorità che il governo italiano ha intenzione di affrontare fin da subito, nella veste di presidente Ue. «Serve ciò che stiamo facendo in Mozambico – aggiunge Renzi – non slogan o spot di qualche ideologo con la camicia colorata».
Tanti, troppi, i morti del Canale di Sicilia. Una scena vissuta ancora nelle settimane scorse quando a Pozzallo era arrivata una carretta con oltre 40 cadaveri dentro la stiva, tutti asfissiati dal gas della sala macchine che confinava con quella che è poi diventata la loro camera della morte. Uccisi dai loro stessi compagni di
sventura che avevano chiuso il boccaporto per non farli uscire, nel timore che l’imbarcazione si capovolgesse. E anche ieri il macabro canovaccio si è ripetuto in quel tratto di mare a 65 miglia da Lampedusa. Ma questa volta qualcuno si è salvato.
«Negli ultimi mesi la situazione si è fatta davvero pesante –dice il capitano di vascello Luigi Galioto – e per queste emergenze quotidiane abbiamo raddoppiato e potenziato le nostre unità navali ed aeree che affiancano le navi di Mare Nostrum». L’ammiraglio Felicio Angrisano, comandante generale delle Capitanerie di Porto, spera che le stragi possano uno giorno o l’altro finire: «E però credo che quest’esodo epocale non si chiuderà presto, dall’inizio dell’anno sono oltre 84.000 i migranti giunti in Italia. Ma quanti ne sono morti?». Tanti. Troppi.
ad La Repubblica