Nell’agosto del 1985 Falcone e Borsellino, minacciati dalla mafia, vennero costretti all’esilio con le famiglie sull’isola del Diavolo. E anche per loro quel paradiso fu un inferno
Nel giardino di una villa sul mare è appena cominciata una festa. Sguardi, ragazze abbronzate che ballano. Dietro una siepe si muove un’ombra, poi un’altra ombra è già sul sentiero che porta alla spiaggia. Sono carabinieri in tuta mimetica, come in guerra. Non c’è più musica e non c’è più festa, solo silenzio. Un giovane capitano si avvicina a un uomo, che in mano ha ancora una coppa di vino bianco: «Dottore, lei i suoi familiari dovete fare le valigie: ho l’ordine di portarvi immediatamente in aeroporto per trasferirvi tutti in un luogo segreto. Non chiedetemi dove perché non lo so». Si volta e gli mostra il blindato, metà jeep e metà carro armato. Butta fumo, ha i motori accesi, è pronto a partire. Tutti i ragazzi se ne sono andati, la villa è vuota, in mezzo al giardino è rimasto solo lui, il “dottore”, Paolo Emanuele Borsellino, giudice istruttore della settima sezione del Tribunale di Palermo, uno dei magistrati del pool antimafia che stanno scrivendo la sentenza-ordinanza «Abbate Giovanni + 706». Il maxi processo a Cosa Nostra. È la seconda settimana di agosto del 1985, sette anni prima. Sette anni prima delle bombe di Capaci e di via D’Amelio. I due giudici sono in pericolo. Con le loro famiglie, «per motivi di sicurezza», vengono deportati nel carcere dell’Asinara. Devono lasciare Palermo, il posto più sicuro per loro è una prigione. Questi lunghissimi venticinque giorni sull’isola del Diavolo verranno raccontati in un film di Fiorella Infascelli. Sceneggiatura che segue i ricordi dei familiari dei due magistrati, ricostruzione rigorosa dei fatti che a tratti — solo a tratti — si confonde fra emozioni e suggestioni. Interni ed esterni nel penitenziario più inattaccabile della Sardegna, alla vigilia di quella straordinaria vicenda giudiziaria che avrebbe per sempre cambiato la storia italiana della mafia e dell’antimafia.
Il blindato sferraglia sull’autostrada, la vetta di Monte Pellegrino scompare nella foschia, sulla pista di Punta Raisi un aereo sta per alzarsi. Il vento di scirocco fa volare via il cappello di un’anziana signora, Lina, la madre di Francesca Morvillo. È la compagna di Giovanni Falcone. Ci sono anche loro sulla pista, Francesca e Giovanni. E intorno al giudice più amato e più odiato d’Italia si stringono Paolo Borsellino, sua moglie Agnese, i figli Manfredi, Lucia e Fiammetta. Non hanno neanche il tempo di capire perché sono lì tutti insieme e l’aereo è già sopra Capo San Vito, mentre vira verso la Sardegna. Qualche ora dopo, una costruzione bianca, mura spesse, torrette, filo spinato. Un uomo si presenta: «Non so se qui si può dire benvenuti, io mi chiamo Franco Massida». Il direttore del carcere dell’Asinara è rientrato precipitosamente dalle ferie, davanti a sé ha i due magistrati. Un giorno prima una fonte riservata aveva annunciato un attentato «prima contro Borsellino e poi contro Falcone» al consigliere istruttore Antonino Caponnetto, un’informazione arrivata dall’Ucciardone in una delle estati più infami di Palermo. Il 6 agosto i macellai di Totò Riina avevano ucciso a colpi di kalashnikov il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia, il 28 luglio era caduto sul molo di Porticello anche il commissario Beppe Montana. Poliziotti che indagavano sui misteri di mafia per conto del pool, cercavano latitanti, facevano parlare confidenti. Poliziotti amici di Giovanni Falcone e Pao-
lo Borsellino.
«Consegnatemi le vostre pistole, questo è il regolamento», ordina Massida ai due magistrati che ormai sono ufficialmente rinchiusi nel carcere sull’isola, settecentocinquanta i detenuti, quattrocento liberi fra le campagne e le capre fino al tramonto, uno solo segregato nel bunker di Cala d’Oliva, la cella riservata ai sepolti vivi.
La foresteria si affaccia su una baia con il mare verde. Giovanni e Francesca si sistemano in una stanza, Paolo e Agnese in un’altra, in fondo trovano posto Lina e poi i tre ragazzi. I due giudici sono ancora storditi, sudati, si guardano, per qualche istante non riescono a parlare. Poi uno chiede: «Ma come facciamo con le carte?». E l’altro: «Le carte, prima o poi, ce le porteranno». Le carte. Quelle del maxi processo, la sentenza-ordinanza che loro — insieme al consigliere Caponnetto e ai giudici Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello — stanno completando per rinviare a giudizio centinaia di boss. È la prima volta che lo Stato trascina tutta Cosa Nostra alla sbarra. A Palermo stanno costruendo una gigantesca aula per ammassare i capi e i loro soldati, anche a Roma si sono finalmente accorti che «bisogna fare la lotta alla mafia». Si aspetta soltanto il deposito dell’ordinanza. Ma i magistrati sono partiti per l’Asinara all’improvviso, non hanno le loro schede e i loro appunti, non hanno il loro archivio.
Come faranno a ultimare l’istruttoria? Quando potranno visionare tutti i documenti? Quando torneranno in Sicilia? È una corsa contro il tempo. Isolati, non possono comunicare con l’esterno. Vietato telefonare in Tribunale, vietato mettersi in contatto con il ministero. Troppe spie, troppi traditori.
Giovanni Falcone è furioso, l’hanno trascinato lì come un pacco senza dirgli nulla. Paolo Borsellino è preoccupato, per sé e per i suoi figli. I giorni passano e loro — che non possono consultare le migliaia di pagine rimaste nei sotterranei del Palazzo di Giustizia di Palermo — sprofondano in un delirio di ansia e di paranoia. Falcone è sempre più teso, Borsellino sempre più cupo. La piccola Lucia comincia a stare male: non mangia più. Dalla Sicilia non arrivano notizie, da Roma nemmeno. Quanto dovranno restare ancora sull’isola del Diavolo?
Mare verde e foresteria, foresteria e mare verde. Nelle interminabili notti dell’Asinara c’è una voce che proviene dal bunker e che porta inquietudine. È quella di un uomo, il detenuto sepolto vivo. Canta sempre una vecchia melodia napoletana. Falcone e Borsellino scoprono che è Raffaele Cutolo, il capo della Nuova Camorra Organizzata. È lì, a un passo da loro, il boss più pericoloso degli Anni Ottanta.
Ormai i due giudici sembrano rassegnati, si sentono abbandonati. Ma poi accade qualcosa che sconvolge tutto e tutti. Lucia sta sempre più male, il padre la porta in gran segreto a Palermo. Sono i momenti più drammatici della loro “prigionia”. Dopo pochi giorni però Borsellino ritorna all’Asinara e abbraccia Agnese: «Lucia ha ricominciato a mangiare». Poi si rivolge all’amico: «Guarda cosa stanno scaricando dall’elicottero ». Sono centinaia di faldoni con in evidenza una grande scritta: “Abbate Giovanni + 706”. Tutti esultano: sono arrivate le carte. È la fine di agosto.
La foresteria dell’Asinara diventa una succursale dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Migliaia di fogli, la confessione di Tommaso Buscetta, la documentazione bancaria dei cugini Salvo di Salemi, le perizie balistiche sull’omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Poi, una mattina, arriva la comunicazione ufficiale: «Potete tornare in Sicilia».
Nemmeno qualche settimana dopo un milione di pagine vengono trasferite nella cancelleria del Palazzo di Giustizia. È l’atto di accusa contro la mafia di Palermo. Il maxi processo inizierà nel febbraio del 1986 e si concluderà nel dicembre del 1987 con 19 ergastoli e pene per 2665 anni di carcere. Il primo successo dello Stato contro Cosa Nostra. Nel frattempo a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sarà notificata in ufficio una fattura da saldare: 415.800 lire a testa per le bevande consumate durante i venticinque giorni all’Asinara. È il conto dell’amministrazione penitenziaria, uno dei tanti “regali” dello Stato italiano ai giudici del pool antimafia.