La soluzione in Medio Oriente va cercata fuori dallo scontro tra estremismi. Dobbiamo cercarla noi.
Possiamo dire quel che vogliamo dei palestinesi, dell’islamismo e della sua ideologia violenta, ma non possiamo permetterci di dimenticare che una parte dell’«ossigeno» che tiene in vita Gaza passa attraverso dei tunnel scavati sotto terra, sia a nord sia a sud della Striscia: insieme alle armi, passa anche cibo, passano medicinali, passano oggetti e cose utili. Ma ce l’immaginiamo che cosa significa la vita dei topi che quasi due milioni di persone fanno tutti i giorni, senza tregue? E non parlo di quelle militari, dico di quelle della vita di tutti i giorni.
Ma nello stesso tempo non possiamo indulgere al patetismo e accontentarci della commiserazione per i più sfortunati e infelici girandoci subito dopo dall’altra. Se le cose stanno così, non è né per un caso improvviso o imprevisto né per natura. L’unica cosa della quale non possiamo dubitare è che noi, né israeliani né palestinesi, facciamo comunque parte della tragedia anche se non ne abbiamo favorito od ostacolato il divenire. Su l’Unità di ieri così come su Le Monde nello stesso giorno, sono comparsi articoli che tentavano, generosamente, il bilancio delle accuse reciproche tra sostenitori (nostrani) dell’una e dell’altra parte. Tentativi meritori, che cercano di soppesare colpe e meriti delle due società e dei loro rispettivi governi. Ma onestamente, e fuor di ogni polemica, questo rischia di essere uno sport un po’ snobistico: non soltanto perché nel frattempo della gente muore (e mi si lasci dire: non soltanto bambini!), ma perché la loro morte appare, rebus sic stantibus, spaventosamente inutile. Lo scenario di questi giorni si è già ripetuto una quantità di volte; nessuno degli episodi del passato ha risolto alcunché né la comunità internazionale vi ha visto lo spunto per un qualche decisivo e coraggioso intervento.
Facile a dirsi, difficilissimo a farsi, certo. Ma le teorie sulla risoluzione dei conflitti ci dicono che il primo tentativo da operare, in casi così difficili, è l’allontanamento tra le parti, o quanto meno il loro reciproco staccarsi dai punti di contatto e di scontro. Non possiamo parlare di forze Onu di interdizione perché un veto in Consiglio di sicurezza lo impedirebbe: gli Usa non accetterebbero mai che Israele si trovasse messa, in qualche modo, sotto tutela, anche se provvisoriamente. Ma se non lo fanno le parti in lotta – perché ammettere che lo stato di guerra è per gli uni e gli altri una straordinaria seppur rischiosa assicurazione sul proprio potere, che dà loro quel potenziale di ricatto che li ha tenuti finora in sella – dobbiamo dirlo noi, che non stiamo combattendo. Che cosa succederebbe se Israele improvvisamente rinunciasse ai territori occupati e mettesse la questione nelle mani di un arbitro internazionale? Che cosa succederebbe se Hamas consegnasse le armi a una polizia indipendente e cessasse la sua propaganda? I rispettivi governi cadrebbero, imbevuti di spiriti di lotta e di guerra come le società su cui si appoggiano, che oggi rischiano di non saper più concepire una vita che non sia giocata nella sfida quotidiana con la morte.
In Terra santa (la chiamo così per esasperare il senso della frustrazione universale che dobbiamo provare) la soluzione non c’è, e non la si trova se non la si è trovata in più di 60 anni di conflitto. Vuol dire che bisogna cercarla fuori, cioé tra noi altri che, smettendo di scambiarci accuse sugli eccessi retorici a favore di una delle due parti, dobbiamo promuovere l’impegno degli stati del mondo – non di quei soliti due, che credono di poter ancora fare il bello e il cattivo tempo, ma non ne hanno più né il potere né il diritto (se mai l’hanno avuto) – che devono «marciare» (me lo si lasci dire così, alla buona) in una specie di crociata all’incontrario per fermare le armi, curare i feriti, sfamare gli affamati, ingiungendo loro di smetterla: l’alternativa sarebbe – dovremmo dire loro – attaccarvi, combattervi tutti e sconfiggervi!
È ovvio che non sto facendo una proposta politica operativa: vorrei comprendessimo che l’impegno del mondo pacifico, l’intervento di chi vive senza difficoltà, dovrebbe porsi come sacrificio per la pace in Medio Oriente. Un esempio: l’Unione europea, invece di litigare su Mogherini sì o no, Letta mah o forse, dovrebbe intervenire a piedi giunti nella situazione e, data la sua vicinanza, alzare una voce possente che ingiunga alle parti di arretrare. La violenza ha sempre causato una peggiore violenza. È il momento di invertire la lotta.
da L’Unità