attualità, partito democratico, politica italiana

"Una guerra che riguarda tutti", di Cesare Martinetti

Alla fine l’incidente è arrivato, lo scenario da guerra fredda è da ore sugli schermi tv-computer-smartphone di tutto il mondo. Quale che sia la causa e chi sia il colpevole, un aereo non può cadere per caso in un zona di guerra. Qualcuno ha premuto un grilletto.
Le 298 povere vittime originarie di ogni angolo del pianeta trasformano il conflitto che da mesi sobbolle in quella periferia di confine tra Ucraina e Russia in un conflitto dal valore globale. Non è più una nuova, vecchia, sporca storia tra ex sovietici. Quella guerra, ora più che mai, ci riguarda tutti.
Anche per questo la mancata nomina dell’Alto commissario per la politica estera stende sulla già critica immagine dell’Unione europea un’ulteriore patina di grottesca impotenza. Mentre a Bruxelles si discute e non si decide, nel Donbass si muore. Certo la composizione della Commissione europea – l’organismo che di fatto «governa» 28 Paesi – non è cosa semplice. Non va dimenticato che l’Europa è una realtà ma è anche – ancora – un processo.
Come diceva Helmut Kohl – opportunamente citato dal nuovo presidente Juncker nel suo discorso di insediamento – l’Unione europea è «come il corso del Reno». Ma il suo avanzamento verso il traguardo non è mai stato così lento, contraddittorio, segnato dalla crisi e dunque ostacolato da dubbi e ripensamenti, svuotato di energie solidali e comunitarie, reso egoista dall’attitudine dominante fatta di furbizie e particolarismi.
Collocando Kohl – con François Mitterrand e Jacques Delors – a nume tutelare del suo programma Juncker ha voluto iscriversi in un’ottica decisamente comunitaria, sociale e solidale, per superare i pregiudizi e le divisioni. Rompere cioè con quell’andazzo intergovernativo che ha piagato gli ultimi tempi della politica europea trasformandola in un rodeo: Nord contro Sud, forti contro deboli, ricchi contro poveri. Per superare tutto questo è necessaria una leadership forte, come non lo è stata quella del tandem Barroso-Van Rompuy cui si deve aggiungere la presenza impalpabile di Lady Ashton, inefficace e velleitaria ministro degli Esteri.
Tuttavia la colpa è solo in parte dei protagonisti, le nomine sono sempre il frutto di rapporti di forza. Vengono scelte personalità deboli quando i governi vogliono continuare a comandare, quando si smarriscono le priorità comunitarie. Jean-Claude Juncker è certamente un leader forte, gode – primo presidente della Commissione – del consenso del Parlamento europeo, ha una solida esperienza riconosciuta. Il presidente del Consiglio europeo e l’Alto commissario per la politica estera – i due principali posti che devono essere riempiti – dovranno esserlo altrettanto.
L’impasse che ha impedito ai capi di governo e di Stato di pervenire mercoledì notte ad un accordo è invece la fotografia dell’attuale paralisi comunitaria. Sulla nomina del ministro degli Esteri si è poi manifestata una divisione netta e ardua da sormontare: gli ex paesi satelliti di Mosca (fra tutti Polonia e Baltici) considerano discriminante il rapporto con Putin. Sono loro – a torto o a ragione – a spingere su posizioni da «guerra fredda», per quanto anacronistica ed irreale possa apparire. Sono loro gli ultrà dell’Alleanza atlantica, quelli che già all’epoca della guerra con l’Iraq avevano spaccato l’Ue (alleati però allora di Blair-Aznar-Berlusconi) schierati senza se e senza ma con Bush e contro la coppia franco-tedesca e timbrati allora con l’appellativo di «maleducati» dal presidente francese Chirac.
Matteo Renzi ha sicuramente fatto bene a porre con determinazione la candidatura di Federica Mogherini a ministro degli Esteri Ue, posto che nella ripartizione geografica e politica delle nomine spetta a un rappresentante italiano della sinistra. Non siamo certi che abbia fatto altrettanto bene a non tenersi una carta di riserva, perché proprio nella logica comunitaria instaurata da Juncker le poltrone si conquistano con il consenso e in funzione di una politica condivisa. Da questo punto di vista gli indugi e le esitazioni europee nella vicenda ucraina hanno fatto più male che bene a Kiev, allargando lo spazio di manovra di Putin. La visita della nostra ministra al Cremlino, al di là dei contenuti, è servita da pretesto simbolico ai suoi nemici per attribuirle l’etichetta di amica di Mosca. La Farnesina avrebbe fatto bene ad equilibrare quell’immagine con le foto degli incontri della Mogherini con i dirigenti ucraini.
Nell’intervista pubblicata su La Stampa di sabato scorso, il presidente Giorgio Napolitano ha rappresentato la complessità della situazione e indicato un possibile percorso per uscire dalla crisi: riaffermare la legalità internazionale, sostenere i nuovi poteri legittimi a Kiev, discutere con Mosca le sue preoccupazioni e i suoi interessi. Non si può azzerare la storia e quanto essa ha depositato di russo in Crimea e nel Donbass. Né si deve – per effetto della crisi – considerare esaurita la strategia di coinvolgimento della Russia nella comunità internazionale con un atteggiamento di esclusivo «contenimento» riproducendo un’anacronistica guerra fredda.
Per affermare una tale linea – che possiamo definire di mediazione e certamente non gradita ai «nuovi» europei – ci vogliono leader e leadership forti e riconosciute, la politica non è un esame di relazioni internazionali. Troppi «focolai di crisi» sono accesi intorno a noi, avvertiva Napolitano. Ogni crisi – oggi – può diventare globale. Per quanto possiamo fare in fretta l’aereo malese abbattuto ieri sulla terra grigia e dolente d’Ucraina ci dice che siamo drammaticamente in ritardo.

da www.lastampa.it

******

“Sulla trincea d’Europa”, di Paolo Garimberti
L’abbattimento nel cielo sopra le linee del fronte della guerra russo-ucraina di un aereo della Malaysia Airlines, una compagnia contro la quale il destino si accanisce in maniera agghiacciante, riporta d’improvviso l’attenzione su un conflitto che si stava nascondendo dietro una routine quasi burocratica: nei notiziari giornalistici, nell’opinione pubblica e nei corridoi della diplomazia internazionale. Oscurato dall’acutizzarsi della crisi di Gaza nell’eterno scontro israelopalestinese. Oscurato dai litigi sulle nomine del nuovo vertice dell’Unione europea, dal declino domestico di Obama e perfino dalla vittoria della Germania nei mondiali di calcio. Eppure i morti continuavano a essere a centinaia nelle file dell’esercito regolare ucraino e di quello irregolare filorusso, specie nella regione Shiaktiorsk ( shaktar in ucraino significa minatore, principale lavoro nell’area di Donetsk, che ne è la capitale). Da dove sarebbe partito il missile che avrebbe abbattuto il Boeing 777, stesso modello e stessa compagnia di quello misteriosamente scomparso tempo addietro nei cieli dell’Estremo Oriente. Specie dopo che il nuovo presidente ucraino Petro Poroshenko aveva deciso di mostrare i muscoli, rivestendoli sovente della mimetica da combattimento, per remunerare politicamente la piazza che l’ha eletto e che reclama l’annientamento delle milizie separatiste.
Ma come tutte le guerre intestine (e quella in Ucraina lo è per la storia dei rapporti tra i due Paesi), a sfondo etnico, la quantità delle vittime diventa a lungo andare una tragica, ma ripetitiva contabilità, che fa sempre meno notizia. Finché c’è la strage che ridesta l’attenzione e risveglia le coscienze. Così fu per la mattanza di Srebrenica nel conflitto balcanico (che quello russo-ucraino molto ricorda) per la quale proprio due giorni fa è stata condannata l’Olanda con una sentenza che fa Storia, prima ancora che giurisprudenza.
Ora è molto difficile — come lo fu a lungo nei Balcani — stabilire chi è il carnefice nel rimpallo di accuse tra ucraini fedeli a Kiev e ucraini fedeli a Mosca. Nessuno sa di che armamenti siano esattamente in possesso le milizie separatiste e dunque, fino a prova contraria, la loro affermazione di non avere missili capaci di raggiungere un aereo che volava a 10mila metri di quota non può essere dismessa come disinformatsjia di stampo vecchio Kgb. Però alcuni indizi sono sospetti: c’era in aria, in quel momento, un Iljushin 76 che trasportava viveri per le truppe di Kiev. Un missile a ricerca automatica può aver puntato il velivolo sbagliato?
I vecchi cremlinologi, tornati in auge grazie alla nostalgica vocazione imperiale di Putin, troveranno anche sospetto lo zelo con il quale il numero due dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk, il filorusso Andrei Purghin, ha promesso che la scatola nera del Boeing sarà consegnata alle autorità russe «per un’indagine obiettiva». Che tale sarà soltanto se verranno fuori prove a carico dell’esercito ucraino. Di questo c’è da essere certi ed è improbabile che una commissione d’inchiesta internazionale possa essere nominata e anche se lo fosse possa operare in modo autonomo. Certo, anche la chiamata di Putin a Obama, resa nota con strana sollecitudine dal Cremlino attraverso uno dei suoi megafoni televisivi, fa sorgere qualche interrogativo: proprio due giorni fa il capo della Casa Bianca aveva annunciato un inasprimento delle sanzioni contro la Russia.
Quale che sia la verità, una cosa è certa. La diplomazia internazionale non potrà continuare a considerare la guerra russo-ucraina come il «solito business» che non la riguarda di fronte a 295 morti e (secondo le fonti dei separatisti russi sul posto) tanti corpi di bambini sparsi nei verdi campi dei “minatori”. Tanto più che il momento politico del conflitto appariva quanto mai favorevole a una mediazione. Con Putin, da una parte, stranamente silente da tempo quasi non sapesse più come districarsi di fronte alle sanzioni specie dopo che la Banca centrale ha pronosticato un calo dell’economia del 4,6 per cento. E Poroshenko dall’altra desideroso di appagare le richieste “europeiste” della Maidan che lo ha eletto, ma timoroso di finire nella rete delle sirene degli ex satelliti europei dell’Urss, che lo vogliono non soltanto nella Ue, ma anche e soprattutto nella Nato (sulla prima scelta la Russia potrebbe anche chiudere un occhio, sulla seconda mai e poi mai).
Di fronte a questa Srebrenica aerea (o Sarajevo missilistica, visto che siamo nell’anno del centenario) l’Occidente deve prendere un’iniziativa. Non solo di verbale «ferma condanna», della quale sono pieni i cimiteri. Ma chi può farlo? Gli Stati Uniti sempre più ripiegati su se stessi, militarmente e politicamente, con un presidente di cui i giornali si fanno ormai beffe contando quante volte ha giocato a golf rispetto ai suoi predecessori? L’Unione europea, così impegnata a litigare su come distribuire le poltrone della Commissione e gli incarichi per l’Alta (?) autorità per la politica estera? Come disse una volta François Mitterrand dopo un vertice europeo al culmine dell’assedio di Sarajevo «siamo troppo deboli militarmente e divisi politicamente per poter far qualcosa».

da La Repubblica