Mario Draghi ha avanzato la proposta di un governo europeo delle politiche strutturali dopo l’annuncio che la Bce si prepara a fornire mille miliardi di liquidità al sistema bancario. L’economia reale, tuttavia, non ha avuto modo di gioire di questo annuncio: gli ultimi dati sono negativi.
Lo sono per tutti i paesi europei, compresa la Germania, sollevano dubbi sulla ripresa ed aumentano i timori di una possibile deflazione. Le stesse preoccupazioni ha espresso ieri, a proposito dell’Italia, anche il ministro Padoan. L’idea di coordinare e controllare a livello europeo le politiche strutturali può avere qualche riflesso positivo ma, in generale, appare come un tentativo di razionalizzare la linea esistente che è già fallita rispetto all’obbiettivo di rilanciare l’economia reale in Europa. Innanzitutto è noto che le politiche strutturali producono i loro effetti in tempi medio-lunghi; bisognerebbe inoltre definirle in modo assai diverso da come lo furono nella famosa lettera della Bce al governo Italiano di qualche anno fa che riduceva tutto alla “flessibilità” del mercato del lavoro ed alle pensioni. Livello dell’evasione fiscale e della corruzione, funzionamento della macchina statale, dotazione di infrastrutture, squilibri territoriali e politiche strutturali per superarli e per adeguare i sistemi economici alla sfida del passaggio ad un nuovo modello di sviluppo, questi dovrebbero essere i temi verso i quali orientare un governo europeo delle riforme strutturali.
Il principale problema strutturale è di dimensione europea ed è la crescente divergenza tra i diversi paesi dell’Unione che è aumentata dall’entrata in funzione dell’euro e aumenta ancora in seguito alle politiche di austerità per quanto riguarda soprattutto i tassi di crescita e di occupazione e l’andamento del debito pubblico. Sarebbero necessarie politiche di dimensione europea dirette a ridurre le divergenze e rilanciare la crescita e che comporterebbero anche un rilancio della domanda interna nell’area. Questo è il problema assente nella proposta di Draghi. D’altro canto l’area europea, in seguito alle politiche di austerità – cioè a prezzo di un aumento straordinario della disoccupazione e di una riduzione delle retribuzioni e del tenore di vita – ha accumulato un robusto attivo della bilancia dei pagamenti, perciò ha ora tutto lo spazio per un rilancio della domanda interna: avere 26 milioni di disoccupati e mantenere un attivo consistente della bilancia dei pagamenti
sarebbe più che un errore un crimine.
L’aumento della domanda interna europea può avvenire attraverso due leve. Innanzitutto una formidabile strategia di investimenti: il passato trentennio ha conosciuto nei paesi avanzati il più basso livello di investimenti, soprattutto di quelli pubblici, della storia del capitalismo e tale livelo è letteralmente collassato dall’inizio delle politiche di austerità. Si è accumulato un enorme fabbisogno di investimenti in beni pubblici, infrastrutture e nelle imprese anche allo scopo di adattare la struttura economica ad un nuovo modello di sviluppo anche più sostenibile dal punto di vista ambientale. L’altra leva può essere l’aumento delle retribuzioni e quindi dei consumi a partire dai paesi con forti attivi della bilancia dei pagamenti ciò che consentirebbe simultaneamente di aumentare la domanda interna europea e ridurre le divergenze di competitività derivanti dal costo del lavoro. Segnali in questa direzione vengono dal discorso di insediamento di Juncker e dalla decisione del governo tedesco si stabilire un salario minimo che potrebbe far lievitare il livello complessivo delle retribuzioni.
Una grande strategia di investimenti può essere finanziata anche dalla politica monetaria, se, alla fine, la Bce si decidesse ad operare più direttamente verso l’economia reale come fatto dalla Fed e dalla Banca giapponese. Potrebbe essere finanziata attraverso il bilancio dell’Unione, anche attraverso l’indebitamento, aumentando fortemente le dotazione della Bei e dei Fondi specializzati di investimento per infrastrutture esistenti o da costituire; può essere finanziata con la mobilitazione di risparmio privato: bassissimo livello degli investimenti e politiche monetarie costantemente espansive hanno generato una enorme massa di risparmio che in mancanza di nuovo investimenti si riversa sugli asset esistenti con effetti speculativi. Il rilancio degli investimenti andrebbe realizzato, naturalmente, anche a livello nazionale per questo è di importanza decisiva sottrarre dal calcolo del deficit pubblico le spese per investimenti. Ma non meno importante è che lo Stato si doti di una capacità di programmazione strategica degli investimenti e di orientare il loro finanziamento. Su questo tema si sta discutendo in molti paesi: in Inghilterra sono state costituite già due banche pubbliche e
si discute, su proposta della London School of Economy, di una banca pubblica di affari e di una banca delle infrastrutture; anche negli Usa si discute di una banca della infrastrutture ed Obama ha proposto la creazione di istituti di ricerca pubblici per i settori ritenuti strategici per lo sviluppo futuro; la Germania ha una enorme banca pubblica, la Kwf, con funzioni di politica industriale e di sostegno al bilancio pubblico; Il Cile ha costituito un Sistema Nazionale per gli Investimenti Pubblici, Australia e Canada vanno nella stessa direzione.
L’Italia, durante la prima Repubblica, aveva il più complesso sistema di intervento pubblico nell’economia di un paese capitalistico: quel sistema fu liquidato, ma al suo posto non ne è stato costruito un altro. In Italia vi è circa un trilione di miliardi di euro di risparmio gestito e alcune associazioni di investitori istituzionali, quali Ania, hanno manifestato la disponibilità a dialogare col Governo sul tema degli investimenti. Sarebbe urgente concentrare l’attenzione sugli strumenti attraverso i quali il governo intende dotarsi della capacità di influire sulle strategie di investimento ed orientare verso di esse parte delle risorse finanziarie esistenti.
da l’Unità