In molti prima di me hanno scritto che la chiusura de L’Unità è semplicemente impensabile, inconcepibile. È così. Non è pensabile che fra pochi giorni un giornale importante, libero, storico, possa sparire. Non è giusto e non è civile. Non è pensabile che uno dei pochi spazi di discussione e approfondimento e scoperta chiuda per sempre.
Non è pensabile neanche per me, ovviamente, e non lo dico solo da lettrice ma anche da collaboratrice (iniziai con Furio Colombo ,all’indomani di un altro salvataggio «fine di mondo» con gagliardissima ripartenza) e da scrittrice. Sì, da scrittrice che a ogni uscita di libro, film, prima di spettacolo teatrale, albo di fumetti, disco o serie tv è certa di trovare recensioni di qualità, argomentazioni critiche e spazi di dibattito mai ovvi, sempre liberi. Oggi più che mai perché mai come prima proprio la cultura, e l’approfondimento critico, e il dibattito fra voci diverse, e il taglio che non t’aspetti, e la preparazione, sono minacciati da superficialità, velocità, improvvisazione e rozzezza.
Così voglio parlare della cultura su l’Unità e pure di mee de l’Unità. Della volta in cui ho chiamato al volo per dire che avevo visto Maimorti di Renato Sarti a Milano ed era uno spettacolo importantissimo e, pur facendo storia e memoria, parlava dell’attualità del Paese (e finì in prima anche se era uno spettacolo «off»). O di quando ho scritto di Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi, un documentario che era partito da Milano come una cosa piccola ma era una cosa grande( e di nuovo ho trovato ascolto e spazio). O, per arrivare agli ultimi mesi, di quando Stefania Scatenimi ha chiesto di scrivere di Kurt Cobain perché erano i vent’anni della morte (e nessun altro quotidiano lo ha ricordato con così tanti pezzi e contributi).
Voglio parlare di quando Concita De Gregorio ha affidato agli scrittori una rubrica settimanale in cui poter commentare i fatti del mondo. Voglio parlare dell’importanza per uno scrittore, per un regista, per un cantante, di sapere che esiste un posto in cui il tuo lavoro verrà valutato da critici attrezzati e severi e del timore che questi posti si riducano sempre più, di giorno in giorno, lasciando spazio libero solo ai pareri, troppo spesso «ingenui» e scritti peraltro malissimo, del pubblico che anima gli sfogatoi online (anche delle recensioni). Voglio parlare del giornale in cui, di letteratura, scrive Angelo Guglielmi, e potrebbe bastare questo. Ma mi rendo conto che non potrebbe bastare, tutto questo, anche se è parecchio, alla vita di un giornale, e intendo «giornale» come forse si intendeva una volta: un metodo e una guida per la lettura del presente, non un Bignami fast and furious del «cos’è successo oggi». E allora dirò non solo che l’Unità mi serve, ma anche perché e come mi servirebbe.
Per esempio per dedicare lo stesso rigore critico (anche un po’ tignoso, anche un po’ curioso, anche capace di vedere il grande nel piccolo) alla società e alla politica. Perché di questi tempi all’apparenza nuovi e invece simili ai tempi di prima, serve una voce critica che non ceda né ai facili entusiasmi né ai disfattismi infantili. Che, scrivendo, sappia leggere quel che si muove intorno. Si dice in questi casi: senza guardare in faccia a nessuno, ed è una scemenza. Guardando in faccia tutti, invece, mi sembra più serio e consono, più adatto a l’Unità. E penso soprattutto a quella parte politica ormai indefinibile e indecifrabile che è la sinistra. Burbanzo sa evincente come vorrebbe qualcuno, ferita e dispersa come piangono altri. Ma sempre frenetica e incasinata e di difficile soluzione e di complicata lettura. E intendo qui non la sinistra dei capi e dei capetti, ma dei valori e delle persone, del lavoro, il poco che c’è e il molto che dovrebbe esserci. Un giornale di parte critico soprattutto con la propria parte è una buona, ottima, assicurazione sulla vita: allontana la propaganda e avvicina la comprensione. Per questo l’Unità mi serve e per questo trovo assurda anche solo l’ipotesi che possa sparire.
da l’Unità 17.7.14