Alle riforme che dovrebbero darci un nuovo sistema politico manca un capitolo decisivo: l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione. Ne parlano in pochi. E sono voci inascoltate.
Il tema è stato fin qui escluso dalle sedi in cui si negoziano le modifiche al bicameralismo e la nuova legge elettorale. Definire invece le norme che possano garantire ai cittadini la democraticità della vita interna ai partiti e la trasparenza dei loro bilanci è fondamentale per rigenerare la politica e dare equilibrio alle istituzioni. Di questo parla l’art. 49, parole dimenticate della Costituzione italiana. «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Checché ne dicano i filosofi del nichilismo, senza partiti non c’è democrazia: basta guardare il mondo. Ma senza democrazia interna i partiti creano ferite, squilibri all’intero sistema. La storia della nostra democrazia difficile ha impedito per decenni di dare seguito a questo dettato costituzionale. Ora però, un quarto di secolo dopo la caduta del Muro, non ci sono ragioni plausibili per giustificare l’inerzia. La verità è che la cosiddetta seconda Repubblica ha accantonato l’art. 49 per una ragione ideologica: voleva indebolire, delegittimare i partiti. Berlusconi ha raccolto l’eredità del pentapartito sostituendo al vuoto creato da Tangentopoli il suo partito personale, anzi patrimoniale. L’idea del partito popolare, contendibile, plurale, autonomo è rimasta solo a sinistra. Per questo la campagna contro i partiti è stata incessante e la destra ha trovato sponde in pezzi non marginali del capitalismo e delle classi dirigenti nazionali.
È stata un’azione di demolizione sistematica. Dalla legge elettorale, imperniata sui premi alle coalizioni (come non accade in nessun Paese democratico del mondo), all’attacco contro il finanziamento dei partiti (che invece esiste in varie forme in tutte le democrazie), si è cercato di trasformare il nostro sistema in un presidenzialismo di fatto forzando la Costituzione formale. Il mito del premier eletto dal popolo è servito a ricomporre la frantumazione del sistema attorno a leadership personali, anziché a partiti organizzati. Non è in discussione il maggior peso delle leadership personali nella società della comunicazione oppure l’inesorabile superamento del modello di partito pesante. Il problema è il carattere democratico dei partiti, la loro libertà di idee e di scelta. Il problema è come consentire ai cittadini di «determinare la politica nazionale». Quali risorse, quali poteri attribuire loro.
In questi giorni si discute animatamente sulla riforma del Senato e la legge elettorale. Sono vasi comunicanti. È dal combinato disposto che dipenderanno la qualità democratica del sistema, i pesi e i contrappesi, le garanzie costituzionali. Se il Senato non sarà elettivo, è inimmaginabile che restino le liste bloccate alla Camera. Se cambiano gli equilibri numerici tra Camera e Senato, bisogna evitare che la funzione di garanzia del Capo dello Stato venga destabilizzata. Speriamo che il Parlamento valuti bene. Ma anche l’attuazione dell’art. 49 può avere un funzione di equilibrio del sistema. La democraticità e la trasparenza dei partiti possono diventare esse stesse fattore di garanzia.
Ormai siamo in un sistema tripolare. Si sta decidendo di assegnare la guida del governo e la maggioranza del Parlamento a uno solo dei tre poli in competizione, relegando all’opposizione gli altri due (che potrebbero insieme ottenere la maggioranza dei voti degli italiani). È chiaro che un siffatto sistema ha bisogno di rafforzare i contrappesi, non solo la funzione di governo. Ma proprio la vita interna ai partiti può essere uno dei più validi contrappesi, se i partiti saranno luogo di confronto e di rappresentanza di idee, di valori, di interessi. Partiti a cui viene assicurato di esistere anche se vanno all’opposizione e che in cambio diventano casa di vetro, per la gestione dei fondi e per la possibilità garantita ai loro iscritti di scegliere gli organi dirigenti. Anche di cambiare il capo, se vogliono.
Non si tratta di spostare ancora di più il baricentro dei partiti nelle istituzioni e nello Stato. Al contrario, l’attuazione dell’art. 49 deve spingere in senso contrario. I partiti devono essere anzitutto un corpo sociale. Più società, meno istituzioni nei partiti. Il partito non è il governo. Anche quando governa, un partito deve saper difendere l’autonomia del proprio pensiero, la visione del futuro. Il governo è certamente la prova di concretezza e dignità della politica. Ma la politica è anche qualcosa di più. È quel di più che oggi ci sta mancando. Il Pd ha un segretario che è anche premier. Tuttavia, sarebbe più debole il governo se il partito scomparisse alla sua ombra. Senza vitalità democratica dei partiti, senza l’attuazione dell’art. 49, diventerebbe più rischioso un sistema maggioritario che assegnasse il potere a uno solo dei tre poli in competizione.
da L’Unità