Un buon inizio. Se alle parole saprà far seguire i fatti, Juncker potrebbe segnare la svolta di cui la Ue ha bisogno per fare pace con i cittadini. I parlamentari europei gli hanno dato un’ampia maggioranza e lo hanno fatto dopo aver ascoltato un discorso che conteneva tre o quattro punti impegnativi. La grosse Koalition, popolari e socialisti ma anche liberali e Verdi, sarà pure insidiata da contraddizioni, però ha apprezzato una dichiarazio- ne d’intenti che lascia intuire uno scheletro di programma.
Le defezioni che ci sono state sono quelle che ci dovevano essere perché erano state annunciate ed erano una bandiera, ma sostanzialmente, e a ragionar sui grandi numeri, il voto di ieri si è piazzato sul crinale tra chi crede nel futuro dell’Europa e delle sue istituzioni, a cominciare dalla moneta comune, e chi lo rifiuta. E il rapporto di forza è confortante, come s’è visto. Anche mettendo nel conto, e dalla parte giusta, un certo numero di parlamentari critici da sinistra su Juncker e l’alleanza che lo porta al potere, ma schierati sul rinnovamento dell’Unione.
Ma un buon inizio è pur sempre solo un inizio. Già in queste ore il lavorìo delle diplomazie intorno all’organigramma dei nuovi vertici istituzionali mostra quanto sarà difficile il percorso dalle parole ai fatti. Juncker non avrà certo le mani libere nella scelta dei commissari, che i governi trarranno dal cilindro come al solito con gli occhi fissati più sulla politica di casa loro che sulle esigenze comunitarie. Dovrà fare i conti con un presidente del Consiglio che sarà, inevitabilmente, il distillato dei complicati calcoli sugli equilibri tra gli Stati. Forse non riuscirà ad ottenere l’unificazione in una persona sola delle cariche di commissario agli Affari economici e monetari e di presidente dell’Eurogruppo. E dovrà assistere dalla panchina alla battaglia sulla nomina dell’Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza dopo la rivolta dei paesi orientali contro la «filorussa» Federica Mogherini.
Un dato, comunque, è acquisito. L’annuncio del piano da 300 miliardi, presi dal bilancio comune e dalla Banca europea degli investimenti, per «rafforzare la competitività e stimolare gli investimenti» in un «ambizioso pacchetto per l’occupazione» segna, al di là del merito, una importante novità politica. Finalmente come strumento del risanamento dell’economia europea vengono indicate non (non solo) le manovre sul contenimento del deficit e del debito, ma (ma anche) misure espansive. Il lussemburghese si adagia anch’egli nell’ossimoro per cui si debbono mantenere gli obiettivi attuali del Patto di Stabilità e nello stesso tempo utilizzare i margini di flessibilità «constatati» dall’ultimo Consiglio europeo (come se bastasse «constatare» e quella «constatazione» non fosse a sua volta controversa). Ma nei fatti abbatte il falso tabù dei «soldi che non ci sono». I soldi ci sono: quelli delle risorse proprie dell’Unione e quelli dei privati, che possono essere spostati dalla rendita e dai torbidi giochi sui mercati finanziari verso gli investimenti e la produzione con adeguate politiche fiscali nel cui coordinamento la nuova Commissione può ritagliarsi qualche ruolo. Il cambiamento di contenuti e di tono, rispetto a Barroso, è evidente. E offre qualche motivo di speranza la fondata supposizione che esponendo le proprie ambizioni Juncker debba aver tenuto conto dell’orientamento, in materia, di quello che, sia pure obtorto collo, è stato il suo sponsor principale: la cancelliera tedesca. Il viaggio di ritorno dall’austerity, che era già iniziato, potrebbe subire una accelerazione. Intanto con il superamento, promesso dal futuro presidente, dell’odioso strumento delle trojke, da cui la Commissione – ha annunciato il capo del futuro esecutivo – si ritirerà come hanno fatto peraltro già il Fmi e la Bce.
Certo, non bisogna illudersi troppo. Nel campo di Jean-Claude Juncker ci sono componenti fortemente legate alla politica europea che ha segnato gli ultimi anni. Ieri il capogruppo dei popolari Manfred Weber ha detto di apprezzare il suo discorso, ma nell’aula c’era ancora l’eco delle durissime dichiarazioni che aveva pronunciato nel dibattito sul semestre italiano. Molti nel suo gruppo la pensano come lui e non c’è dubbio che lo dimostreranno pretendendo dal presidente coerenza con il suo passato, che non è stato certo quello di un innovatore ma, soprattutto come presidente dell’Eurogruppo, quello di un esecutore, sia pure talvolta un po’ riottoso, delle politiche fondate solo sulla disciplina di bilancio. Giusto, e però non c’è solo quella, di coerenza. I critici della candidatura del lussemburghese hanno molto insistito sul suo essere «vecchio» (come figura pubblica, perché all’anagrafe ha 59 anni). C’è qualcosa di vero in quell’accusa, ma non è detto che la si debba leggere solo come un insulto. Ieri Juncker ha richiamato le sue origini di cristiano-sociale attento alle ragioni e alla cultura dell’economia sociale di mercato e ha citato nel suo album di famiglia due socialisti, Jacques Delors e François Mitterrand, e un democristiano, Helmut Kohl. Ma soprattutto ha disegnato come sfondo alla propria iniziativa un sistema di valori legato alla tradizione europea del solidarismo e del welfare. E lo ha rivendicato promettendo che l’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, uno dei grandi appuntamenti della sua presidenza, non sarà concluso «a qualsiasi prezzo», perché noi «non possiamo abbandonare i nostri valori, le nostre norme». Da quelle sulla protezione sociale dei lavoratori a quelle sulla tutela ambientale a quelle sulla privacy. Ed è agli stessi valori che si è richiamato annunciando l’intenzione di accogliere le istanze italiane per la determinazione di una nuova politica dell’Unione per l’immigrazione e l’accoglienza dei rifugiati, da affidare a un commissario speciale.
da L’Unità