Santanchè che vuole comperare l’Unità è un po’ come se il comandante Marcos debuttasse come broker a Wall Street. Sono gli scherzi del post-ideologico, che per quanto post ancora non era riuscito a scardinarle proprio tutte, le coordinate del vecchio panorama politico e sentimentale del pianeta Terra.
Avveretenza: un giornale (o una qualunque azienda) in agonia merita rispetto a prescindere, e non c’è offerta, non c’è obolo che almeno da un orecchio non possa essere ascoltata con cortesia anche se poi verrà rifiutata con altrettanta cortesia; a meno che, come Casaleggio, si attenda la fine del mondo stropicciandosi le mani, tanto poi si va tutti a vivere su Plutone via internet. Il vecchio glorioso amato e odiato giornale fondato da Antonio Gramsci si dibatte da decenni (non per diretta volontà di Casaleggio, insomma) in una crisi ferale, che è di mercato e prima ancora di ruolo: dunque non merita astio né spregio la proposta di acquisto che la signora ha
avanzato in tandem con Paola Ferrari, giornalista, conduttrice televisiva e moglie di Marco De Benedetti. Niente di illecito o di ingiurioso. Ma di sbalorditivo, sì.
Sbalorditivo perché Santanché, tra i tanti difetti, ha sempre avuto il pregio di una schietta faziosità, donna di destra dal rossetto ai tacchi, dai sentimenti — è la compagna del feroce Sallusti — all’eloquio da parà. Perché dunque inserire nel suo shopping anche un giornale comunista? I dietrologi ci sguazzeranno, immaginando un movente sadomaso (ti compero perché voglio che agonizzi tra le mie braccia) o una brutale intenzione pedagogica (ti compero e ti raddrizzo la schiena finché non abiuri e scrivi che Gramsci, se fosse ancora tra noi, tornerebbe in Sardegna solo per brindare al Billionaire). Noi gente semplice restiamo, invece, a bocca aperta, come i vecchi diffusori dell’Unità alla bocciofila, come i lettori residui (pochi ma non pochissimi) di quel giornale che ha segnato la storia del Paese, che nacque nella Torino operaia e intellettuale, che fu clandestino sotto il fascismo, che entrava in fabbrica, negli anni Cinquanta, nascosto sotto il giubbotto dei sindacalisti, il giornale che milioni di italiani comunisti comperavano ogni mattina per sapere “che cosa dice il Partito”, il giornale che svolazzava in piazza San Giovanni dopo le grandi manifestazioni e i funerali di Berlinguer.
Sono cose che non tornano, va detto; e va anche detto che è normale che non tornino. La vita continua, e la vita cambia. Di qui a immaginare Daniela Santanché che nomina il direttore dell’Unità, francamente il passo è grande. Così grande che, a parte il comunicato secco e dignitoso del comitato di redazione dell’Unità che si limita a definire “irricevibile” l’irricevibile, davvero non si sa bene che cosa dire e che cosa pensare, se non che la confusione è grande sotto il cielo, e per giunta, per essere luglio, dal cielo cade tanta di quella pioggia che neanche in novembre.
da La Repubblica