Con la velocità e la determinazione di cui è capace, Renzi batte quotidianamente il tempo del cambiamento: il Senato, la legge elettorale, il terzo settore, la riforma della Pubblica amministrazione, il jobs act sono i tanti temi che si rincorrono nell’agenda politica. D’altra parte, come ha ripetutamente affermato, la sua strategia è dimostrare al Paese che cambiare si può. E gli italiani si augurano che ce la faccia.
Così, grazie alla legittimazione elettorale di cui dispone, Renzi gioca la sua leadership forzando la mano a una classe politica riluttante. E questo lo fa a suon di ceffoni. Cosa che gli accresce il consenso popolare e insieme l’astio di chi si sente messo all’angolo.
È normale che, in un Paese complicato come l’Italia, chi vuole cambiare sia tacciato di autoritarismo. E non è difficile capire che, dietro a questa accusa, si celano spesso invidie e resistenze. D’altra parte, il fatto che Renzi, non richiesto, si sia sentito di rispondere a questa critica che sta nell’aria, è segno che si tratta di un punto sensibile.
In realtà, l’Italia si trova oggi in una situazione singolare: al di là dei meriti del capo del governo, è come se l’intero Paese, esausto e sfiduciato, si fosse consegnato nelle mani di un uomo solo. Non è la prima volta che ciò accade nella nostra storia. Ciò, se da un lato dà al premier uno spazio di azione straordinario, dall’altro nasconde una sottile insidia: quanto più fragorosamente si disgregano assetti istituzionali ed equilibri di potere, tanto più velocemente si riforma, attorno al capo, in modo informale e caotico, una nuova corte — fatta non solo di singole persone ma anche di gruppi di potere — che ha tutto l’interesse a sfruttare a proprio vantaggio la situazione. Ciò, oltre a produrre quel sapore autoritario, rischia di cancellare la critica, deprimere la competenza, far perdere lucidità decisionale, scardinare le istituzioni.
Nell’educazione scout in cui è cresciuto Renzi, i temi della leadership e della promessa sono centrali. Provenendo dalla stessa matrice culturale, mi permetto di riprendere due sottolineature di quel mondo, utili per superare la situazione nella quale Renzi rischia di impantanarsi.
La prima è che «autorità» viene dalla stessa radice della parola «autore», che significa «colui che fa accadere». Per questo, l’autorità è legittima solo se è autentica. Cioè se fa quello che dice. Se mantiene le promesse. Renzi lo continua a ripetere. Quasi ossessivamente. Perché sa che, nella condizione in cui si trova — quasi dovesse tirare un calcio di rigore — non può fallire. Dimostrata la sua bravura nello sfondamento, il premier si misuri ora sulla congruenza di un disegno di riforma complessivo — che non è proprio facile scorgere — e sulla concretezza dei risultati ottenuti. Nel mondo reale e non solo negli atti parlamentari. Avendo la pazienza di curare fin nei minimi dettagli la realizzazione delle riforme annunciate e l’umiltà di circondarsi dei migliori che gli possono dare una mano nel centrare l’obiettivo.
La seconda sottolineatura è che l’autorità diventa fattore di cambiamento vero e duraturo solo se, assumendosi le proprie responsabilità, è al contempo capace di «autorizzare». Cioè se è capace di non cedere alla angoscia del controllo che porta all’accentramento. Che alla fine blocca il cambiamento. Nella fase di costruzione, non basta battere il tempo; occorre delineare un’armonia che permetta la mobilitazione diffusa e coerente delle tante energie propulsive presenti nella società. Autorizzando, cioè, tanti altri, nei diversi campi della vita sociale, a diventare protagonisti della vita del Paese. È su questo secondo aspetto che si vedrà se la deriva statalista potrà dirsi davvero archiviata.
A chiederlo è peraltro il tempo che viviamo. Uomini soli al comando possono servire per aprire varchi nuovi. Ma per costruire e cambiare davvero, per rianimare un’intera società, occorre saper decidere delineando il senso di un cambiamento di cui sia possibile condividere con altri le aspirazioni e le ragioni. Che vengono prima e vanno oltre la persona del leader. E di cui egli porta, solo provvisoriamente, la responsabilità.
Il premier ci rifletta. È sulla sua capacità di qualificare in modo più articolato la propria leadership nella nuova fase apertasi a seguito del salto che egli stesso ha consentito all’Italia di compiere, che si giocherà il suo e il nostro futuro.
da Il Corriere della Sera