Due giorni per cambiare i vertici della Ue. Stasera, salvo sorprese (improbabili), Jean-Claude Juncker sarà il nuovo presidente della Commissione, pronto a prendere il posto di Barroso allo scadere del suo mandato, a novembre o forse prima. Domani sera, oppure domani notte o giovedì all’alba se tra i 28 capi di stato e di governo ci sarà da litigare, dovremmo conoscere i nomi del presidente del Consiglio europeo che succederà a Herman Van Rompuy e del Signor o della Signora Rappresentante per la Politica Estera e la Sicurezza che succederà a Catherine Ashton. Poi, se va bene, di qualche commissario e, forse, chissà, del presidente dell’Eurogruppo, ovvero del consiglio dei 18 ministri dell’Economia e delle Finanze dei Paesi con la moneta unica, che potrebbe essere il commissario agli Affari economici ma anche un altro. Vedremo.
Oggi il parlamento a Strasburgo, domani i massimi leader a Bruxelles disegneranno insomma la nuova mappa del potere europeo, così com’è venuto fuori dal voto dei cittadini a maggio – ed è stata una grossa e importante novità democratica – e così com’è andatosi aggiustando nelle faticose negoziazioni tra le cancellerie, nel segno dei rapporti di potere tra gli Stati e delle mediazioni tra le politiche che essi esprimono.
Domanda: i nuovi poteri esprimeranno una nuova politica oppure invereranno anche lassù a Bruxelles la mesta logica del Gattopardo? Sul fatto che la strategia economica dell’Unione debba cambiare, passando dall’idolatria della disciplina di bilancio alla dottrina profana degli investimenti e dei soldi da spendere per il lavoro e la ripresa dei consumi, c’è un accordo crescente che va dai socialisti agli economisti più avvertiti (e più ascoltati) come i «cinque saggi» tedeschi e che tocca ormai anche le sponde del centro-destra, pur se le durezze del capogruppo popolare nel dibattito parlamentare sul semestre italiano e certi toni che continuano ad arrivare dalle capitali del rigore, dicono che qualche battaglia s’è vinta ma la guerra ancora no. Comunque è ragionevole pensare che i nuovi vertici, a cominciare da Juncker e dal presidente del Consiglio, chiunque sarà (l’ex capo del governo estone, il liberale Andrus Ansip, la premier danese Helle Thorning-Schmidt o chi ancora?), non si arroccheranno su posizioni che neppure Frau Merkel in Germania presidia più con la determinazione di un tempo. La recente diatriba sulla flessibilità reclamata dal governo italiano ha mostrato le remore, le ostilità e i margini, piuttosto stretti, in cui si giocano le eventuali aperture, ma è tutta da esplorare la terra vergine dell’impiego, a fini di rilancio dell’economia dai consumi al lavoro, delle risorse proprie europee. E su queste terre non è da escludere che ci si imbatta in novità interessanti.
Juncker sui programmi si tiene prudente, com’è inevitabile se non giusto, affidandosi alla consolidata formula per cui bisogna, sì, favorire la crescita con misure adeguate, ma mantenendo fede alla rigidità degli obiettivi del Patto di Stabilità. Insomma, l’ossimoro cui tutti, o quasi, tributano una fedeltà più o meno sincera. Il lussemburghese lo accompagna con un altro proposito un po’ contraddittorio: la dichiarata intenzione di recuperare i rapporti con Londra, che come si sa gli ha fatto la guerra, promettendo attenzione per le pretese britanniche.
Comunque, l’impegno, preso giorni fa davanti agli eurodeputati socialisti & democratici, di nominare un socialista come successore di Olli Rehn agli Affari economici e monetari è un chiaro segnale d’apertura verso chi propugna politiche espansive. E il segnale potrebbe moltiplicare il suo valore se andasse in porto l’operazione, di cui si parla in queste ore a Bruxelles, di unificare l’incarico di commissario economico con quello di presidente dell’Eurogruppo. Uno sviluppo che frustrerebbe le manovre della destra mettere al vertice dei 18 lo spagnolo Luis de Guindos, già advisor della Lehman Brothers e tuttora affiliato all’Opus Dei.
Poi c’è il terreno della politica estera. Qui il bisogno di cambiamento appare ancora più evidente nelle ore in cui l’Unione sta dando l’ennesima umiliante prova di non esistenza di fronte alla tragedia di Gaza. Le possibilità che l’istituzione dell’Alto Rappresentante trovi senso e funzione sono limitate dalla stessa ambiguità intergovernativa della carica, sospesa come una corda da equilibrista tra le diversità e i contrasti delle politiche estere nazionali. Ne è una prova anche ciò che sta accadendo in queste ore, con la fronda dei Paesi dell’est e – manco a dirlo – della Gran Bretagna sulla candidatura di Federica Mogherini.
La ministra degli Esteri italiana è accusata di essere «troppo disponibile» al dialogo con Mosca, tanto sulla vicenda ucraina quanto sul progetto South Stream. La critica, al di là del merito, è illuminante dell’arrière-pensée di chi la fa: gli interessi nazionali sono prevalenti e non possono «sciogliersi» in un superiore interesse dell’Unione.
L’ambiguità intergovernativa dell’Alto Rappresentante è, insieme, espressione e causa dell’incompiutezza dell’integrazione europea. Chi vuole davvero una politica estera comune dovrebbe impegnarsi a superarla. Può essere un terreno di iniziativa per la presidenza italiana.
da L’Unità