Martedì il Parlamento europeo dovrebbe apporvare la nomina di Jean-Claude Juncher alla guida della Commissione europea, mercoledì, a Bruxelles, i capi di Stato e di governo dell’Unione dovrebbero nominare il successore di Herman Van Rompuy alla presidenza del Consiglio Europeo e quello, o quella, di Catherine Ashton nell’incarico di Alto Rappresentante per la politica estera e della sicurezza. Forse verrà anche qualche indicazione sulla figura del futuro presidente dell’Eurogruppo. In due giorni il nuovo assetto dei vertici istituzionali europei sarà definito. Il cambio della guardia avviene durante il semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’Unione, il che consegna al governo di Roma una responsabilità politica di qualche spessore.
Questo è il calendario e qui si fermano le certezze sul futuro dell’Europa, anche su quello più vicino. Dei mutamenti possibili, necessari, opportuni o auspicati, della strategia economica dell’Unione si è parlato abbondantemente nelle ultime settimane e negli ultimi giorni ed è chiaro a tutti che questo sarà il terreno di uno scontro di cui si delineano già forme e contenuti. L’altra dimensione dell’Europa, invece, quella della sua collocazione nel contesto internazionale, dei suoi rapporti con le altre grandi aree del mondo, della sua «politica estera» (espressione che richiede le virgolette, et pour cause) si perde nella nebbia delle incertezze.
Il fatto che l’Europa non abbia una sua politica estera è, oggi come oggi, poco più che la banale constatazione di un fatto. Ma la banalità non rende il fatto meno grave e potenzialmente pericoloso, come ha fatto notare Giorgio Napolitano nel richiamo alle responsabilità europee che ha espresso in modo quasi accorato nell’intervista concessa alla Stampa.
In questo momento – dice il Presidente – «si stanno pericolosamente incrociando tensioni e conflitti con cui malamente conviviamo da molti anni e nuovi focolai di contrapposizione che hanno rotto schemi precedenti». Napolitano cita espressamente l’Ucraina, che è come dire il problema dei rapporti con la Russia, i quali non possono essere chiusi in una sorta di nuova versione del containment della Guerra Fredda, le «conseguenze imprevedibili» che avrebbe un’eventuale invasione israeliana della striscia di Gaza e la micidiale aggressività del nuovo fondamentalismo islamico all’opera in Siria e in Iraq. In risposta a questi vecchi e nuovi pericoli, il semestre della presidenza italiana «non potrà essere un semestre solo di affari interni della Ue, in relazione ai problemi dell’economia, per decisivi che siano, ma dev’essere anche un semestre di forti impulsi europei per costruire una prospettiva di stabilizzazione e pacificazione a est e a sud dell’Europa».
L’indicazione è chiara, ma gli strumenti? Sul piano istituzionale esiste l’ufficio dell’Alto Rappresentante, che non è il «ministro degli Esteri» dell’Unione, come per comodità d’espressione talvolta si dice e si scrive.
Magari lo fosse. Si tratta di un ibrido creato dal Trattato di Lisbona, che condensa in sé tutti i difetti dell’incompiutezza dell’integrazione europea, a cominciare dal più grave: il suo irrisolto rapporto di dipendenza dal Consiglio, e quindi dai governi. Con il primo rappresentante, lo spagnolo Javier Solana, l’istituto aveva manifestato tutti i suoi limiti, con la seconda, l’inglese Ashton, è stato un disastro. Qualcuno sostiene che i motivi del fallimento vadano cercati nella personalità del titolare della carica e che se alla guida dell’ufficio venisse nominata una personalità forte e con forti appoggi di potere le cose andrebbero diversamente. È la logica con cui fu sostenuta, nel 2009, la sfortunata candidatura di Massimo D’Alema. Può darsi che ciò sia in parte vero, ma ci sono molte ragioni per ritenere che la debolezza dell’istituto sia invece nella sua stessa natura e che è questa che bisognerebbe impegnarsi a cambiare.
Porre almeno la questione sul tappeto potrebbe essere una delle iniziative politiche del semestre italiano.
Ma la questione istituzionale è solo l’aspetto visibile di un problema ben più profondo. L’inesistenza di una politica estera dell’Europa è l’espressione paradossale della «troppa» esistenza delle politiche estere nazionali che il processo di integrazione per come si è svolto finora non ha saputo (e in parte non ha voluto) risolvere. Nonché della mai definita sistemazione dei rapporti con gli Stati Uniti e con la Nato, alleanza militare sopravvissuta alla Guerra Fredda ed evidente impedimento ad ogni ipotesi di costruzione di una politica di difesa europea. Non c’è solo la Gran Bretagna con il suo retaggio imperiale e la sua «special relationship» con gli Stati Uniti. Tutti i grandi Stati dell’Unione continuano a riservarsi grandi fette nazionali nella torta delle relazioni europee con il resto del mondo, a cominciare dagli Usa. Per la Francia parla l’evidenza storica, ma anche la Germania è molto lontana, ormai, dallo spirito con cui dopo la guerra decise di esorcizzare per sempre il proprio destino di potenza centrale sciogliendolo nella comunità occidentale. Scelta che fu ribadita dopo la riunificazione tedesca, e non era scontato. Non c’è stata crisi internazionale, negli ultimi anni, in cui questa sopravvivenza (o ritorno di fiamma) di politiche estere nazionali non si sia manifestata, dalla guerra in Iraq all’intervento in Libia ai rapporti con gli stati produttori di petrolio all’Ucraina, solo per fare esempio. E alla questione della gestione dei profughi, per farne uno che ci riguarda molto.
Il successore di Catherine Ashton dovrà fare difficilissimi conti con questa realtà. Se sarà un italiano o un’italiana, avrà almeno il vantaggio di sapere che dalla sua parte ci sono l’autorità e il prestigio internazionale di Giorgio Napolitano
da L’Unità