Il ritratto di Aristide Merloni domina ancora il Palazzo del Comune di Fabriano, che s’affaccia sulla bella fontana Sturinalto. Il fondatore di una delle più grandi e fortunate dinastie imprenditoriali italiane probabilmente non avrebbe mai immaginato di veder la sua creatura industriale nelle mani degli americani.
Non perché nella lunga stagione del boom e dell’industrializzazione, dei consumi di massa e delle auto e delle lavatrici per tutti, non fosse possibile pensare di espandersi, di andare all’estero, di cambiare. Anzi.
Ma perché c’era in quei capitani d’impresa, che avevano vissuto le distruzioni della guerra e poi la faticosa ricostruzione del Paese, il senso profondo dell’impegno, del dovere, del rispetto della comunità in cui si opera, della necessità di agire nell’azienda e nella politica, anzi di poter usare l’una e l’altra, e nessuno denunciava il conflitto d’interessi, al servizio della collettività. Aristide Merloni, con la sua famiglia e poi i suoi tre figli tutti imprenditori con alterne fortune, fu sindaco, parlamenta- re per la Democrazia Cristiana e industriale, fu soprattutto un protagonista di quella linea della responsabilità sociale dell’impresa che, ben prima delle sempre tardive riflessioni dei convegni della Confindustria, trovava uno spazio nella via familiare al capitalismo.
Per decenni l’Italia ha potuto beneficiare di quella miscela miracolosa di un intervento pubblico, di una regia dello Stato combinati con il dinamismo delle imprese familiari, capaci di genia- li intuizioni e di successi sorprendenti. Naturalmente oggi, mentre assistiamo alla vendita del gruppo Indesit agli americani di Whirlpool che già si sono insediati nel varesotto fecondato dalla cultura d’impresa del cavalier Giovanni Borghi della Ignis, non possiamo campare di nostalgie consolatorie né è utile solo volgere lo sguardo indietro, al passato. Siamo uomini di mondo, il mercato è il mercato, non fa prigionieri e se gli ultimi eredi Merloni non sono più in grado di andare avanti e normale che passino la mano. Dopo aver litigato per anni e aver indebolito l’azienda, forse andranno a giocare a golf o insegneranno ad abbinare l’ultima borsetta con le sneakers, come suggerì in un’intervista a un settimanale femminile Maria Paola Merloni, già parlamentare pd poi transfuga con Pietro Ichino nelle fragili falangi di Lista Civica.
E tuttavia bisognerà pur interrogarsi e trovare delle risposte soddisfacenti per capire come mai pezzi interi dell’in- dustria privata di origine e conduzione familiare siamo spariti o sopravvivano a stento. Dove sono finiti i Falck, i Marzotto, i Ferruzzi? Dove avete nascosto la Montedison, la Farmitalia Carlo Er- ba, l’amata Olivetti? Tutto sparito, rimane qua e là qualche traccia, qualche retaggio di una stagione lontana.
Ora tocca ai Merloni lasciare. Tocca ai figli di Vittorio, protagonista di una difficile stagione economica, ma capace di aperture e progressi in azienda, in Confindustria e nei rapporti con i sindacati e le comunità in cui produceva, vendere agli americani a un prezzo, per la verità, che sembra un affare solo per Whirlpool. Un «premio» del 5% sui corsi di Borsa recenti per finalizzare il prezzo di cessione appare una specie di mancia, piuttosto che la giusta e congrua valutazione del controllo di uno dei protagonisti dell’industria degli elettrodomestici in Europa. Ma se so- no tutti contenti, beati loro.
Anche se oggi leggerete sui grandi giornali commenti e valutazioni positive su questa cessione, se il governo magari sarà felice di aver attirato altri in- vestimenti stranieri, se molti apprezzeranno la scelta delle famiglia di consegnare l’impresa a una grande multinazionale americana, scelta propedeutica a una ulteriore fase di crescita, è bene prendere i fatti per quello che sono. Il passaggio della Indesit in mani americane è soprattutto l’ultima sconfitta del capitalismo privato italiano, del nostro sistema economico e imprenditoriale incapace di difendere i pezzi pregiati della manifattura nazionale proprio mentre il premier Renzi, la Confindustria, i sindacati, tutti quanti giura- no di voler tutelare e rilanciare il nostro tessuto produttivo.
«L’Italia delle fabbriche», per dirla con il titolo di un bel saggio di Giusep- pe Berta che ha fatto scuola, sta scomparendo, la desertificazione industriale avanza, abbiamo perso 120mila fabbriche e il 25% della produzione. Che cosa deve ancora succedere affinché il governo e tutti i soggetti imprenditoria- li e sociali prendano coscienza di questo depauperamento e agiscano di conseguenza? Quale altra grande impresa dobbiamo perdere, dopo le decine che abbiamo visto filare all’estero, affinché si cambi davvero verso con una incisiva politica industriale che veda l’intervento coerente e decisivo dello Stato? Le aziende chiudono, gli stranieri fanno shopping dei nostri gioielli e in Parla- mento c’è chi pensa che il vero problema che ostacola la competitività italiana sia l’articolo 18. Siamo proprio un Paese malato.
Forse non succederà nulla. O magari ci toccherà vedere dopo il fallimento della parziale privatizzazione di Fin- cantieri, la vendita di ulteriori quote di capitale di Eni ed Enel, cioè i bastioni della nostra economia. Una scelta discutibile: lo Stato non riesce a vendere Fincantieri e allora per recuperare 5 o 10 miliardi di euro rischia di perdere il controllo di due imprese strategiche per il Paese. Altro che politica industriale. Possibile che la privatizzazione di Telecom o di Alitalia, il «nocciolino duro» dei ricchi privati o la cordata di «patrioti» non abbiano insegnato niente? Più di trent’anni fa, quando c’erano i comunisti, Luciano Barca, allora responsabile dell’Industria, condusse dure battaglie politiche per far ragionare i governi dell’epoca, i sindacati, le imprese sulla necessità di ristrutturare il nostro tessuto produttivo, per difendere le eccellenze industriali e puntare gli investimenti su nuovi settori avanzati. Una battaglia inutile, persa anche quella. Gli effetti li vediamo oggi.
L’Unità 12.07.14