Chi sostiene che con la grande recessione nulla tornerà come prima, forse non si occupa di bricolage. È l’unico settore nel quale la propensione all’acquisto sia risalita ai livelli del 2009. E continuano a calare le spese al ristorante, ma i supermarket registrano consumi crescenti di prodotti di qualità adatti alle
cene fatte in famiglia.
Gli italiani non aspettano più la fine ufficiale della crisi, hanno deciso di fare da sé. È come se avessero preso atto dello spread che esiste fra le loro speranze, con il ritorno di un po’ di fiducia nella politica, e la dura realtà dell’economia.
Questo spread è ovunque, al punto da diventare il filo sottotraccia che dà un senso all’ambivalenza di questi mesi. C’è un premier nuovo, il più giovane della storia repubblicana, il cui gradimento tocca il 72% subito dopo che gli occupati sono scesi (in aprile) di 87 mila unità. C’è la produzione industriale che in maggio strappa al ribasso dell’1,2% — terzo calo in cinque mesi, in rosso anche per il 2014 — dopo che in aprile la fiducia nel settore manifatturiero e dei servizi segnava i massimi da più di due anni. C’è la paralisi dei consumi che prosegue anche con gli 80 euro di bonus fiscale nelle tasche di dieci milioni di lavoratori. E un assetto politico finalmente più stabile, accolto da uno spread fra Bund tedeschi e Btp che sale come quando a Londra o a Bruxelles si credeva che Beppe Grillo avrebbe vinto le europee.
L’Italia dell’èra di Matteo Renzi non è una storia per gli osservatori esteri, ma almeno due. Due vicende che a volte sembrano svilupparsi in direzioni opposte. L’Istat mostra che in marzo il commercio al dettaglio è balzato verso l’alto, come se gli italiani avessero percepito la speranza che spesso accompagna un cambio di governo. In parte per le stesse ragioni il listino di Piazza Affari è stato la star d’Europa nella prima metà dell’anno, in crescita di oltre il 12%. Ma ora, al primo ritorno d’incertezza, è Milano la borsa che cade più bruscamente. Intanto i sondaggi delle Coop mostrano che le famiglie vogliono comprare sempre meno carne. A giugno il 42% degli intervistati dice che nell’ultimo anno la sua situazione economica è peggiorata: meno del 54% di dicembre, ma è sempre un’enormità.
È come se gli italiani avessero voglia di sperare di più, ma faticassero a trovare conferme nella realtà intorno a loro. Questo è uno spread che la Banca centrale europea non può certo chiudere come fece con quello fra titoli di Stato di Italia e Germania
nel luglio 2012. E non c’è un politico in Italia in grado di sanare questa contraddizione con le stesse parole che allora usò Mario Draghi: «Faremo qualunque cosa serva — disse allora il presidente della Bce —. E credetemi, sarà abbastanza».
Con Draghi funzionò, perché i mercati finanziari vivono di attese e trasformano la loro fiducia in realtà in un istante. Ma i politici in Italia, a partire da Matteo Renzi, sono costretti a lavorare su un corpo dalle reazioni molto più lente e complesse. Non basta la fiducia a un piccolo imprenditore che ogni settimana deve passare un quarto del suo tempo in adempimenti burocratici o fiscali, invece che in ricerca, cura del prodotto, formazione, conquista di nuovi mercati. Non basta a un disoccupato che, per aprire una pizzeria, è costretto a conseguire una serie infinita di diplomi utili solo a chi si fa pagare i relativi corsi a caro prezzo. E il “credetemi, sarà abbastanza” in stile Draghi non è sufficiente neppure ai giovani che vogliono usare gli incentivi pubblici per lanciare una start-up innovativa ma non possono, perché non sono laureati: la legge relativa, approvata due anni fa, li esclude così come avrebbe tagliato fuori anche il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg (che notoriamente non ha mai finito gli studi a Harvard).
Mezzo secolo di incuria e fallimenti nel rapporto fra fisco, burocrazia, corporazioni di privilegiati e cittadini semplici ha lasciato l’Italia in uno stato che non ammette più scorciatoie. Le vie di fuga sono finite. La frenata della Cina, la ripresa debole degli Stati Uniti, gli errori dell’area euro sono tutti fattori che pesano. Ma se c’è stato un ritorno di speranza e fiducia in questi mesi, è anche perché gli italiani sentono che il Paese ora deve fare i conti con se stesso. Deve farli con tutti i treni diretti al ventunesimo secolo che ha già perso. A Berlino o a Bruxelles pochi hanno capito che senza fiducia non si può agire sugli aspetti capillari del male che da vent’anni impedisce all’Italia di crescere. Ma senza fatti, anche la fiducia dopo un po’ si erode. Lo spread fra speranza e realtà è comunque destinato a chiudersi. Speriamo dalla parte giusta.
La Repubblica 12.07.14